Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Lombardia, sentenza 7 maggio 2019 n. 94. Incompatibilità delle cariche sociali nel pubblico impiego

Il rapporto di lavoro con il datore pubblico è storicamente caratterizzato, a differenza di quello privato, dal c.d. regime delle incompatibilità, in base al quale al dipendente pubblico, nei limiti previsti dall’ordinamento, è preclusa la possibilità di svolgere attività extralavorative. La ratio di tale divieto, che permane anche in un sistema depubblicizzato a rimarcare la peculiarità dell’impiego presso la p.a., va rinvenuta nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico (“I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” art. 98 Cost.), per preservare le energie del lavoratore e per tutelare il buon andamento della p.a., che risulterebbe turbato dall’espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto. Il ruolo del dipendente pubblico a tempo indeterminato, rende assolutamente vietata l’attività di amministratore unico di una società di capitali, che è carica sociale palesemente e testualmente vietata e non autorizzabile ex art.60, d.P.R. n.3 del 1957, richiamato dall’art.53, co.1, d.lgs. n.165 del 2001, svolta. L’inosservanza di tale basilare precetto sul divieto di assumere cariche sociali in società di capitali (ergo assolutamente vietate e non autorizzabili) comporta la condanna pecuniaria, per danno erariale, a fronte del mancato riversamento spontaneo al Comune datore di lavoro, in base all’art.53, co.7 e 7-bis, d.lgs. n.165, del compenso percepito. I motivi familiari, umani, flantropici di una scelta palesemente contra legem o il mancato esercizio di reale attività gestoria, sono in questa sede giuridicamente irrilevanti, né si tratta di attività autorizzabile in cui sia mancata rituale autorizzazione per incertezze o avalli informali datoriali, vertendosi in ipotesi, come detto, di attività assolutamente vietata, cioè preclusa ad ogni lavoratore pubblico e, dunque, neppur autorizzabile. La questione giuridicamente rilevante non è se l’incolpato abbia svolto o meno attività di ristoratore ma l’aver assunto una carica sociale (che, tra l’altro, non presuppone una vicinanza fisica tra sede lavorativa comunale e sede dell’impresa ristoratrice) vietata per legge e l’aver ottenuto anche un pagamento per tale attività (comunque vietata quand’anche fosse stata svolta gratuitamente).

massima di redazione

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Corte dei Conti Lombardia sentenza 94-2019

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