Consiglio di Stato, Sezione Sesta, sentenza 7 novembre 2016 n.4647. Al proprietario di un’area inquinata, non responsabile dell’inquinamento, non puo essere ordinata l’attività di rimozione, prevenzione e messa in sicurezza di emergenza.

La direttiva 2004/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi.bonifica-sito-inquinato Alla luce dei principi desumibili dal diritto europeo di matrice unionale, e dell’impianto del Codice dell’ambiente va esclusa l’imposizione, a carico del proprietario estraneo all’inquinamento del sito, di misure di prevenzione o di riparazione, fatta eccezione per quelle che il soggetto intraprenda spontaneamente ai sensi dell’art. 245 del Codice dell’Ambiente. Non può ipotizzarsi il coinvolgimento coatto del proprietario di un’area inquinata, non responsabile dell’inquinamento, nelle attività di rimozione, prevenzione e messa in sicurezza di emergenza. Al più tale soggetto, in qualità di proprietario dell’area, potrà essere chiamato, nel caso, a rispondere sul piano patrimoniale e a tale titolo potrà essere tenuto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito determinato dopo l’esecuzione di tali interventi, secondo quanto desumibile dal contenuto dell’art. 253 del Codice dell’ambiente.

testo integrale

Consiglio di Stato, Sezione Sesta, sentenza 7 novembre 2016 n.4647. Presidente: Santoro; relatore: Castriota Scanderbeg

FATTO e DIRITTO

1.Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministero della salute ed il Ministero dello sviluppo economico impugnano la sentenza del Tribunale amministrativo regionale delle Marche 5 agosto 2009 n. 857 che, in accoglimento del ricorso proposto dalla società Hugo Boss & Accessories Italia s.p.a. , ha annullato il provvedimento n. 19128 del 29 settembre 2006 ed ogni altro atto presupposto e conseguenziale con i quali all’esito di numerose conferenze di servizi ( i cui verbali pure formano oggetto della impugnazione di primo grado) sono state imposte alla società Hugo Boss prescrizioni funzionali alla messa in sicurezza delle aree contermini agli edifici aziendali nel territorio del Comune di Morrovalle nel basso bacino del fiume Chienti, aree interessate da fenomeni di inquinamento della falda.

Le amministrazioni appellanti insistono anche in questo grado nell’evidenziare la legittimità dei provvedimenti gravati in prime cure, ispirati dall’intento di porre rimedio in via d’urgenza ad una diffusa situazione di inquinamento ambientale e si lamentano della erroneità della gravata sentenza che non condivisibilmente avrebbe ritenuto non imputabile la originaria società ricorrente, sull’assunto che la stessa sarebbe mera proprietaria delle aree ma non responsabile dell’inquinamento.

Si è costituita in giudizio la parte appellata per resistere all’appello e chiederne la reiezione.

Le parti hanno depositato memorie illustrative in vista dell’udienza di discussione del ricorso.

All’udienza pubblica del 27 ottobre 2016 la causa è stata trattenuta per la sentenza.

2.L’appello è infondato e va respinto.

3.L’infondatezza nel merito dell’appello esime il Collegio dall’esaminare la preliminare eccezione processuale di inammissibilità del gravame per omessa sua notifica dell’appello presso il procuratore costituito in primo grado.

4.La causa pone la vexata quaestio dei limiti della responsabilità per danno ambientale del proprietario attuale delle aree interessate da un conclamato fenomeno di inquinamento ( nella specie delle falde acquifere) non ascrivibile sul piano eziologico alla sfera di azione del proprietario medesimo.

5.Giova premettere che l’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 21 del 2013, aveva rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la seguente questione interpretativa: “se i princìpi dell’Unione Europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e dalla direttiva 2004/35/UE del 21 aprile 2004 (articoli 1 ed 8 n. 3; 13 e 24 considerando) – in particolare, il principio per cui “chi inquina, paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente – ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245 e 253 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 ( recante il Codice in materia ambientale) che, in caso di accertata contaminazione di un sito e d’impossibilità d’individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa d’imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica”.

L’interpretazione prospettata dall’Adunanza Plenaria si faceva carico di superare alcune criticità insorte nell’esame di una pluralità di casi, in cui il responsabile dell’inquinamento risultava nella maggior parte dei casi irreperibile per avere, con operazioni negoziali di sospetta portata elusiva, alienato la cosa inquinata, mentre il nuovo proprietario trovava proprio nelle richiamate disposizioni inerenti alla limitazione della sua responsabilità (essendo ammessa solo una responsabilità di tipo patrimoniale correlata al valore commerciale del cespite) una sorta di “commodus discessus” al fine di liberarsi dei ben più gravosi oneri economici connessi alla integrale bonifica del sito.

Con sentenza del 4 marzo 2015 (resa nella causa C-534/13), la Corte di Lussemburgo ha confermato e chiarito il proprio orientamento (invero, già espresso nella sentenza 9 marzo 2010, C- 378/08), non diverso da quello preponderante emerso nell’ordinamento italiano e richiamato dalla stessa ordinanza di rinvio dell’Adunanza plenaria, affermando che “la direttiva 2004/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale (…) la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi”.

La decisione conferma quindi la legittimità, alla luce dei principi desumibili dal diritto europeo di matrice unionale, dell’impianto del Codice dell’ambiente che esclude l’imposizione, a carico del proprietario estraneo all’inquinamento del sito, di misure di prevenzione o di riparazione, fatta eccezione per quelle che il soggetto intraprenda spontaneamente ai sensi dell’art. 245 cit..

5.Le amministrazioni appellanti assumono che gli interventi imposti alla società qui appellata rientrerebbero giustappunto nelle misure di emergenza esigibili anche in confronto del proprietario non responsabile dell’inquinamento il quale, in ogni caso, sarebbe tenuto ad eseguire gli interventi di bonifica prescritti per essersi prestato alle preliminari attività di monitoraggio delle acque di falda; donde sarebbe pienamente legittimo l’ordine di messa in sicurezza di emergenza della falda a mezzo della realizzazione di barriere idrauliche in prossimità delle sorgenti di contaminazione della falda in aggiunta all’eliminazione dei focolai di inquinamento.

6.In particolare, le amministrazioni appellanti censurano l’erroneità della gravata sentenza nella parte in cui avrebbe dato per provata l’estraneità della società appellata da ogni responsabilità per inquinamento del sito, essendo al contrario emersa nel corso dell’istruttoria svolta dall’ARPAM la presenza di inquinanti nelle acque di falda sotterranee e nel territorio immediatamente a ridosso delle aree attualmente in titolarità della società Hugo Boss.

Inoltre, le appellanti amministrazioni assumono che il proprietario dell’area è comunque tenuto ad eseguire gli interventi di messa in sicurezza di emergenza.

7.Il Collegio ritiene che la tesi delle amministrazioni appellanti non sia condivisibile e che meriti piena conferma la impugnata sentenza.

Nella impugnata sentenza il Tar ha ragionevolmente escluso, anche sulla scorta delle risultanze della disposta verificazione, che alla società Hugo Boss attualmente proprietaria del sito sia imponibile un’attività di bonifica così consistente ed impegnativa quale quella messa in atto a mezzo dei provvedimenti gravati in primo grado. In particolare, il giudice di prime cure ha individuato due evidenti criticità negli atti oggetto dello scrutinio giurisdizionale: la prima ha riguardato la imputabilità soggettiva delle attività di bonifica ad un soggetto di cui non è stata provata la responsabilità, neppure a livello concausale, nella produzione dell’inquinamento; la seconda è stata incentrata sulla natura stessa delle attività imposte ( barrieramento idraulico delle falde, non correttamente qualificabili alla stregua di attività di messa in sicurezza di emergenza ma piuttosto riconducibili a vera e propria attività di bonifica del sito).

Le conclusioni cui perviene il giudice di primo grado non risultano smentite dalle censure svolte nell’atto di appello.

Le amministrazioni appellanti si limitano ad allegare, senza tuttavia fornire riscontro probatorio anche soltanto indiziario a quanto affermato, che la prova dell’apporto causale al fenomeno dell’inquinamento da parte del soggetto al quale si impongono misure di ripristino ambientale non deve essere quella piena, ma può consistere in elementi indiziari purchè concordanti, come ad esempio la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate nel sito ed i componenti utilizzati dall’impresa nell’attuale processo di lavorazione.

Tuttavia, in relazione alla fattispecie concreta, tale elemento indiziario non viene neppure ipotizzato, posto che le appellanti si limitano ad evidenziare che sarebbero state rinvenute sostanze inquinanti a ridosso dell’area di proprietà della società appellata, senza addurre ulteriori elementi utili a ricollegare sul piano causale il fatto-inquinamento all’attività svolta dalla società Hugo Boss.

Per converso, la circostanza che gli inquinanti siano stati rinvenuti a ridosso delle aree in titolarità della società appellata e non al di sotto delle aree stesse potrebbe essere casomai indice sintomatico della assenza di fattori inquinanti rinvenibili nel processo di lavorazione della stessa società, come d’altronde accertato con sufficiente grado di attendibilità dalla verificazione disposta nel corso del giudizio di primo grado.

Si deve, pertanto, ritenere confermato il dato, non smentito dalle censure d’appello, secondo cui la originaria ricorrente sia estranea al riscontrato fenomeno di inquinamento della falda acquifera, in assenza di sufficienti elementi probatori ( neppure di ordine indiziario) per sostenere la tesi contraria. In tal senso vanno qui confermate le conclusioni cui è correttamente pervenuto il giudice di primo grado.

Ora, sul punto, è ormai pacifico l’orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato (ex multis, Cons. Stato, VI, n. 550 del 2016; Cons. Stato, VI, n. 4225 del 2015) che esclude il coinvolgimento coatto del proprietario di un’area inquinata, non responsabile dell’inquinamento, nelle attività di rimozione, prevenzione e messa in sicurezza di emergenza. Al più tale soggetto, in qualità di proprietario dell’area, potrà essere chiamato, nel caso, a rispondere sul piano patrimoniale e a tale titolo potrà essere tenuto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente ( nella specie, il Comune, ai sensi dell’art. 14 della LR Marche 2 agosto 2006 n. 13, come mod. dalla LR 29 novembre 2013 n. 44) nel limite del valore di mercato del sito determinato dopo l’esecuzione di tali interventi, secondo quanto desumibile dal contenuto dell’art. 253 del Codice dell’ambiente.

8. La sentenza merita di essere confermata anche nella parte in cui, pur ravvisando nella specie la sussistenza della autonoma iniziativa della società proprietaria delle aree nella fase iniziale del procedimento di recupero ambientale, ha escluso che allo stesso potessero essere addossate le importanti opere di bonifica imposte con i gravati provvedimenti; e ciò in considerazione della oggettiva difficoltà di assimilare le opere imposte al proprietario ( barrieramento idraulico delle acque di falda) con quelle di messa in sicurezza di emergenza ( che risultano conseguenti ad eventi di contaminazione repentina e sono funzionali a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente, ai sensi dell’ art. 240, comma 1, lett. m) d.lgs. n. 152 del 2006).

Nel caso in esame, in cui si è in presenza di uno stato di inquinamento derivante da una contaminazione delle acque e del sito di origine risalente e comunque non repentina, correttamente il giudice di primo grado ha escluso dal novero delle attività ascrivibili al proprietario incolpevole quelle oggetto degli atti impugnati.

9. Alla luce dei rilievi che precedono, l’appello va respinto e va confermata la sentenza impugnata.

10.Le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate tra le parti, ricorrendo giusti motivi ravvisabili nella insussistenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale all’epoca di introduzione dell’appello.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese del presente grado di giudizio compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 ottobre 2016 con l’intervento dei magistrati:

Sergio Santoro, Presidente

Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere, Estensore

Andrea Pannone, Consigliere

Vincenzo Lopilato, Consigliere

Italo Volpe, Consigliere

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