Anna Fittante
Nel lungo iter che si è concluso con l’adozione della legge anti-corruzione n. 190/2012, è stato riproposto nuovamente il braccio di ferro in merito alla procedibilità e all’inserimento dell’evento di danno nel reato di corruzione fra privati.
Da un esame approfondito della norma, sembra emergere una certa ritrosia del legislatore nell’approccio al problema. Degna di nota è tuttavia la presa di posizione che si materializza nella modifica della rubrica dell’articolo 2635 c.c., laddove all’”Infedeltà a seguito della dazione o promessa di utilità” si sostituisce la “Corruzione fra privati”. Il testo della novella era stato in prima lettura licenziato dal Parlamento perché l’introduzione della perseguibilità d’ufficio suscitava concitate reazioni dal mondo imprenditoriale; si è pertanto giunti ad una soluzione di compromesso limitando la procedibilità d’ufficio soltanto alle ipotesi in cui dal fatto derivi una distorsione della concorrenza. Scelta, quest’ultima, non condivisa da chi osserva che l’obiettivo di fondo avrebbe dovuto essere quello di punire comportamenti costituenti disvalore nel campo degli affari societari, in quanto ad essere coinvolto non è solo il patrimonio, ma l’utilità sociale richiamata dallo stesso articolo 41 della Costituzione; non a caso dal 2002 (anno in cui è entrata in vigore la norma) ad oggi la casistica giudiziaria ha dimostrato l’evidente mancanza di materia del contendere perché si preferisce “lavare i panni sporchi in famiglia”.1
Tra i modelli di corruzione privata presenti nei diversi ordinamenti, quello italiano può essere classificato come una “farraginosa” commistione tra il modello patrimonialistico e quello pubblicistico. A tal proposito, l’inserimento della distorsione della concorrenza nell’ultimo comma implica un’interferenza con la procedibilità che non necessariamente risulta essere consequenziale e dipendente dal nocumento cagionato alla società.2 Sarà quest’ultima a dover selezionare modelli organizzativi atti ad evitare condotte corruttive da parte dei soggetti apicali.
Un’incongruenza si registra altresì nell’individuazione dei soggetti attivi nel primo e nel secondo comma; se, infatti, la condotta è attuata dai vertici societari o dai loro sottoposti, si applicherà l’articolo 2635 c.c. e sarà pertanto perseguibile a querela di parte, ma se i soggetti attivi sono altri (ad esempio dipendenti esecutori non sottoposti al potere di direzione e vigilanza dei vertici), il reato sarà ascrivibile alle fattispecie di appropriazione indebita, truffa e altri delitti contro il patrimonio per i quali la legge prescrive la procedibilità d’ufficio.
Alla luce di tali premesse, occorre porsi i seguenti interrogativi:
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Chi sono i soggetti legittimati a proporre querela?
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Quale significato può essere attribuito alla circostanza aggravante rappresentata dalla distorsione della concorrenza?
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La novella del 2012 propende per un modello privatistico o pubblicistico di tutela?
Partendo dal primo quesito, il legislatore tace in merito ai soggetti legittimati a proporre querela. La dottrina si è quindi orientata individuando nel caso concreto l’autore della condotta criminosa; se, infatti, l’agere contra ius è ascrivibile agli amministratori, spetterà all’assemblea dei soci ogni determinazione sulla procedibilità, altrimenti sarà lo stesso organo di gestione a decidere in merito.
Il dibattito dottrinario e giurisprudenziale si è tuttavia articolato al fine di evitare aprioristiche conclusioni. Non manca, infatti, chi ritiene che gli effetti della condotta possano ricadere anche nei confronti di soggetti estranei alla compagine sociale, al potere di gestione e controllo. Ed è proprio alla luce di queste perplessità che il richiamo ai principi che regolano l’ordinamento penalistico, ci consente di circoscrivere la portata della norma in relazione al bene giuridico che s’intende tutelare, ossia il patrimonio sociale. In quest’ottica, l’offesa all’integrità patrimoniale potrà essere perpetrata nei confronti dell’effettivo titolare, individuato nella società stessa.3
Se tuttavia si esaminano le conseguenze scaturenti dal mancato riconoscimento di legittimazione a procedere in capo ai singoli soci, appare considerevole la mancanza di qualsiasi forma di protezione. Né tantomeno giova rimettere la decisione all’assemblea, potendosi verosimilmente rappresentare problemi di maggioranze – in relazione a quanto stabilito anche dagli statuti societari – che di fatto precludono ogni espressione di tutela individuale. Si fronteggiano sul punto orientamenti discordanti, facenti leva sulla provenienza dell’offesa.4
Parte della dottrina sostiene, infatti, che anche nell’ipotesi di offesa esterna, ad essere coinvolto sarà in ogni caso l’organo di gestione, con esclusione dell’eventuale amministratore colpevole e fatta salva la competenza concorrente dell’assemblea.5
Non manca poi chi propende per la relativa attribuzione all’assemblea dei soci, l’unica in grado di decidere se presentare la querela ed individuare il soggetto formalmente legittimato.6
Prescindendo dal dibattito dottrinario, è opportuno considerare quanto le dinamiche all’interno della persona giuridica siano complesse e ragionando in termini di capacità dissuasiva della norma in esame, sarebbe stato opportuno devolvere anche solo al singolo socio il potere di proporre querela.
La giurisprudenza è intervenuta sul punto, seppur con riferimento all’articolo 2634 c.c.. Ha osservato, infatti, che al singolo socio, debba essere riconosciuta non solo la qualità di danneggiato, ma di vera e propria parte offesa, poiché a causa del comportamento infedele subisce un pregiudizio.7 Del resto le prerogative dei soci si proiettano sull’oggetto sociale. Le obiezioni mosse nei confronti del suddetto orientamento giurisprudenziale si imperniano sull’indebita confusione tra persona offesa e danneggiato. Giova sul punto precisare che “persona offesa” è il titolare del bene giuridico tutelato dalla norma, “danneggiato”, è invece colui che concretamente subisce un pregiudizio eziologicamente riferibile all’azione o omissione. Sembrerebbe una forzatura attribuire al socio la qualità di persona offesa, sulla base del fatto che il suo patrimonio possa potenzialmente aver subito un pregiudizio “indiretto” dalla lesione “diretta” cagionata al patrimonio sociale; si richiede quindi un maggiore sforzo interpretativo, essendo i giudici ben consapevoli del fatto che l’unico modo per giustificare l’attribuzione della procedibilità al singolo socio potrebbe essere quello di qualificarlo come persona offesa.8
Sorge spontanea la seguente considerazione: la procedibilità a querela tende a rendere l’applicazione della norma sporadica, soprattutto laddove ad essere coinvolti siano personaggi che godono di un certo credito e che pertanto possono agevolmente orientare il voto assembleare, nonché manovrare le decisioni del board aziendale9, pertanto, non sarebbe stato preferibile rafforzare la tutela individuale del singolo socio con evidenti riflessi sull’efficacia general-preventiva della norma? Autorevole dottrina sostiene, infatti, che la struttura dell’articolo 2635 c.c. sembra «consentire un ampliamento anche del novero dei soggetti danneggiati dal reato d’infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità, ai quali deve essere riconosciuta la legittimazione a costituirsi parte civile nel relativo processo penale. Oltre alla società che, per la stessa configurabilità del reato, deve aver subito un pregiudizio, sembra di poter configurare un danno anche in capo ai singoli soci e ai soggetti estranei alla società che risultino penalizzati dall’atto compiuto dall’organo sociale, in violazione degli obblighi inerenti l’ufficio».10
Non è chiaro quale sia l’interesse che il legislatore abbia voluto tutelare mediante l’attribuzione della decisione all’assemblea dei soci. Tra l’altro, la fattispecie di corruzione dei revisori, è perseguibile d’ufficio e ciò genera difetti di coordinamento se consideriamo che l’articolo 2635 c.c., che incrimina la corruzione dei vertici societari, si connoti per un maggior disvalore.
Seguendo la ratio di quella parte della giurisprudenza che individua il singolo socio come persona offesa, e considerando che la condotta corruttiva sia moralmente più grave rispetto al conflitto d’interessi, estendere al singolo socio la legittimatio, consentirebbe di rendere la norma più efficace in sede applicativa e di ricondurre l’intero sistema ad una coerenza intrinseca. Non si può, infatti, prescindere dalla ratio dell’articolo 2247 c.c., rubricato “Contratto di società”, ai sensi del quale: «con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili» e dal conseguente fine ultimo perseguito dai soci. In via semplicistica, se quest’ultimi costituiscono la società allo scopo di dividerne gli utili, il pregiudizio cagionato all’integrità patrimoniale della stessa, dispiegherà automaticamente i suoi effetti sul complessivo obiettivo finale già illustrato.
In merito al secondo interrogativo è opportuno premettere che un’attenta analisi della nuova norma non può prescindere da una serie di riflessioni sul significato da attribuire alla distorsione della concorrenza.
Nella versione finale approvata in Parlamento è stato inserito l’inciso che prevede la procedibilità d’ufficio se dal fatto derivi una “distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni e servizi commerciali”. Non si comprende se il fatto tipico della distorsione vada letto in termini macro-economici, ossia per garantire tutela all’ordinato sviluppo del commercio, o piuttosto micro-economici, a presidio del diritto individuale al libero svolgimento delle attività industriali.11
In questa prospettiva, il diritto individuale appartiene all’ente in cui opera l’autore materiale ed è pertanto necessario il verificarsi del doppio evento di danno, nocumento e lesione del suindicato diritto. Considerando la violazione in termini macro-economici è in ogni caso necessaria la verificazione del nocumento per poter giungere alla soglia di rilevanza penale. Essendo una fattispecie interamente costruita sul pregiudizio dello stesso soggetto privato si punisce non la corruzione, ma il comportamento infedele, che non rileva di per sé, ma in quanto abbia cagionato un danno. L’elemento della corruzione, sintomo della condotta illecita, viene relegato al ruolo di requisito “ombra”.12
La giurisprudenza propende per la soluzione causale, secondo cui sembrerebbe sussistere un ulteriore evento di danno, di difficile accertamento, che dipenderebbe dal nocumento alla società, elemento imprescindibile di fattispecie. Questa tesi troverebbe riscontro nella Decisione quadro n. 2003/568/GAI, che ai sensi dell’articolo 2, comma 3, consente agli Stati di limitare l’incriminazione della corruzione privata alle «condotte che comportano o che potrebbero comportare distorsioni della concorrenza riguardo all’acquisizione di beni o servizi commerciali». Nonostante la clausola restrittiva contenuta nella Decisione quadro, gli strumenti internazionali collocano il bene della concorrenza non su un piano patrimoniale, ma su un piano strutturale, fenomenologico, legato ai principi che regolano il corretto andamento del mercato.13 La ricostruzione fornita dal citato orientamento giurisprudenziale, può apparire erronea se si qualifica la concorrenza non come un fatto, ma come una qualità del mercato, la cui distorsione andrebbe concepita come pericolo astratto di alterazione delle sue regole e non come ulteriore evento di danno.
Si potrebbe tuttavia ragionare sul fatto che il legislatore abbia voluto inserire l’inciso “distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni e servizi” che potrebbe esser letto nella prospettiva civilistica della concorrenza, intesa come competitività dell’imprenditore sul mercato. Del resto v’è da chiedersi come mai abbia voluto specificare che la distorsione si verifichi in occasione dell’acquisizione di beni o servizi e non abbia, invece, fatto genericamente riferimento all’alterazione. Da quest’angolo di visuale, la prospettiva di tutela rimarrebbe ancorata agli interessi dell’imprenditore e la procedibilità d’ufficio potrebbe essere qualificata come aggravante per il doppio evento di danno rappresentato dalla lesione della concorrenza. Ricostruzione, quest’ultima che probabilmente rispecchia le vere intenzioni del legislatore che ha lasciato inalterato l’impianto costruito sul reato di danno.
Sotto un’ulteriore prospettiva, il nocumento potrebbe materializzarsi nella perdita di competitività sul mercato, sia in termini di danno emergente, sia di lucro cessante e consequenzialmente costituire l’unico evento di danno che legittimerebbe la procedibilità d’ufficio. Tesi, quest’ultima, che può essere confutata per i seguenti profili di criticità: se la perdita di competitività, sempre in un’ottica patrimonialistica, fosse l’unico evento di danno, non vi sarebbe ragione per giustificare il diverso regime di procedibilità introdotto dal legislatore. Del resto, esaminando la lettera della norma ”salvo che dal fatto derivi una distorsione […]” e alla luce della struttura di danno e non di pericolo, il fatto dovrebbe inglobare l’evento di danno; diversamente, ben avrebbe il legislatore potuto parlare di atti o omissioni.
Ne consegue che la procedibilità d’ufficio si legittima solo in conseguenza del doppio evento di danno.
Peraltro, quale aggravante del doppio evento, mal si concilia con una concezione strettamente patrimonialistica. Se, infatti, l’ulteriore evento fosse posto a presidio di interessi sempre di natura patrimoniale, si potrebbe ricorrere all’aggravante generica di cui all’articolo 61, comma 7, del c.c., comportando la perdita di competitività, un danno di particolare gravità.
L’abbandono di un’ottica focalizzata e fossilizzata sugli interessi del singolo imprenditore, sembrano celarsi dietro la timidezza del legislatore del 2012. Il superamento della concezione strettamente patrimonialistica consentirebbe di abbandonare il profilo della competitività del singolo e porre il secondo evento di danno a presidio di beni ulteriori, più aderenti al profilo della leale concorrenza per la collettività degli operatori sul mercato, nonché alla libertà d’iniziativa economica di cui all’articolo 41 della Costituzione.
La Corte Costituzionale ha, infatti, qualificato la concorrenza come libertà che integra quella d’iniziativa economica privata ed è al tempo stesso diretta alla protezione della collettività degli imprenditori.14 In una nota sentenza prosegue inoltre, affermando che «dal punto di vista del diritto interno la nozione di concorrenza non può non riflettere quella operante in ambito comunitario; […] non può essere intesa in senso soltanto statico, come garanzia d’interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica ben nota al diritto comunitario che giustifica misure pubbliche volte a ridurre gli squilibri […]».15
La giurisprudenza civile ha ampliato l’ambito di operatività della normativa antitrust, manifestando la sua propensione per il profilo pubblicistico di tutela. Richiamando il patto di non concorrenza che può essere stipulato tra due o più imprese, sostiene che la concorrenza oggetto dell’intesa vietata ai sensi dell’articolo 2 della legge n. 287/1990, sia rappresentata «[…] dal libero mercato in quanto tale, ovverosia il pubblico interesse a mantenere un libero gioco della concorrenza nei settori economici interessati e non quello del singolo soggetto a difendere il proprio diritto individuale».16
Nella stessa direzione, un orientamento giurisprudenziale convergente con la concezione pubblicistica, qualifica la concorrenza sleale come l’illegittima appropriazione dello spazio di mercato, il complesso di comportamenti non corretti dal punto di vista professionale. Consequenzialmente, l’illecito non può derivare dal danno cagionato al singolo concorrente, ma dalla suddetta appropriazione indebita.17
L’interrogativo che una concezione macro-economica può far insorgere è: il pericolo astratto che la corruzione tra privati possa comportare una distorsione della concorrenza è sufficiente per giungere ad una criminalizzazione della condotta?
Abuso di posizione dominante, intesa restrittiva della concorrenza, che sono direttamente disciplinate dalla normativa antitrust, non possono essere considerate meno offensive, ponendosi in una sorta di linea di continuità; il quid pluris della corruzione potrebbe rinvenirsi nella carica d’immoralità. Ed è proprio alla luce del moralismo giuridico che si potrebbe concludere nel senso di ritenere l’immoralità di una condotta, elemento sufficiente per la sua criminalizzazione.18 Una simile considerazione, tuttavia, deve poter essere inquadrata nella cornice dei principi che regolano l’ordinamento penalistico. Individuare nel moralismo causa sufficiente per addebitare una sanzione penale, pone dubbi in termini di meritevolezza di pena, poiché, pur non dubitando sulla rilevanza del bene oggetto di tutela, non è detto che la condotta raggiunga una dimensione di offensività sufficiente dal punto di vista della sussidiarietà del diritto penale.
La prospettiva di tutela interna concepita dal nostro ordinamento, è forse legata ad una tipica logica di mercato che mira al perseguimento del proprio personale interesse a discapito del rispetto delle regole del gioco. La legge si occupa di presidiare beni materiali, tralasciando ogni riferimento a principi cardine di un’etica di mercato.
La subordinazione della rilevanza penale di condotte che già di per sé assumono disvalore, al verificarsi di un evento di danno, suscita dubbi sul piano etico. Se poi si considera la ritrosia delle società a denunciare per evitare ripercussioni di carattere economico o in termini d’immagine, è chiaro che rimettere la scelta sulla procedibilità ai soggetti lesi, potrebbe sembrare un’autorizzazione implicita a delinquere, subordinata al consenso dell’ente coinvolto.
Non si può ignorare che la procedibilità di parte continua ad essere la regola; se da un lato mira a non turbare il funzionamento interno, dall’altro, accetta il rischio di generare una sorta d’impunità per questo genere di comportamenti.
Muovendo da questi profili di criticità e dai dubbi suscitati in sede applicativa, a pochi mesi di distanza dalla modifica de qua, il 15 maggio 2013, è stato presentato dall’On. Pietro Grasso e altri, il Disegno di Legge S. 19 intitolato “Corruzione, voto di scambio, falso in bilancio e riciclaggio”, assegnato alla Commissione Giustizia l’8 maggio 2013.
La proposta mira alla modifica dell’articolo 2635 c.c. nel modo che segue:
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il primo comma viene sostituito dalla formulazione:
«Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, nonché coloro che sono sottoposti alla direzione o vigilanza di uno dei predetti soggetti, che, a seguito della dazione o promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compiono od omettono atti, in violazione dei loro doveri, sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni»;
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il secondo e il quinto comma vengono abrogati.
Si legge testualmente dagli atti parlamentari che «[…] l’attuale previsione determina un’eccessiva limitazione della punibilità di condotte pur idonee a generare gravi alterazioni del mercato e della libera concorrenza; inoltre, col presente provvedimento, si propone di punire con la medesima sanzione prevista per i dirigenti il fatto corruttivo commesso dai dipendenti». 19
Nella medesima direzione si colloca la recentissima Proposta di Legge C-2165 d’iniziativa dei Deputati Ferranti, Verdini e altri, presentata il 6 marzo 2014 e recante modifiche al codice civile e al codice penale per la prevenzione e repressione della corruzione nella pubblica amministrazione e nei rapporti tra privati che ripropone nella sostanza il contenuto del Disegno di Legge S-19.20
Le due proposte di legge stravolgono la norma presentandola come fattispecie di pericolo e non più di danno, ignorando l’acceso dibattito suscitato sin dalla presentazione dell’originaria bozza Mirone. La Legge n. 190/2012 non si è rivelata innovativa nel superare le problematicità legate sia alla perseguibilità di parte, sia al rischio che il reato cada in prescrizione; anche il margine d’indagine riconosciuto alla pubblica accusa è ostacolato dalla complessa individuazione delle condotte che costituiscono distorsione della concorrenza.
L’obiettivo dell’odierno legislatore è segnare l’abbandono di questo punto di vista, per affacciarsi ad una concezione di concorrenza quale bene facente capo ai consumatori nell’ambito della loro libertà di scelta.21
La perseguibilità d’ufficio costituirebbe la concretizzazione del superamento di una tutela tutta apprestata alla dimensione patrimoniale e nei riguardi delle società coinvolte, poiché andrebbe a tutelare un bene di portata più generale. Ed è probabilmente questo l’intento delle proposte de iure condendo.
Nella prospettata formulazione dell’articolo 2635 c.c., manca il riferimento al nocumento che non costituisce più elemento di fattispecie, consentendo di anticipare la soglia di rilevanza penale al fine di presidiare il mercato e la libera concorrenza. Il dolo si risolve quindi nella rappresentazione mentale di verificazione della lesione alla concorrenza, quale effetto della condotta. Il bene oggetto di tutela, in questa prospettiva potrebbe assumere connotazioni più dinamiche, abbandonando la precedente concezione patrimonialistica. Il disvalore della norma s’incentra quindi sulla potenzialità lesiva degli atti o delle omissioni poste in essere in violazione dei propri doveri, scomparendo ogni menzione degli obblighi inerenti l’ufficio, nonché di quelli di fedeltà. Il riferimento a questi ultimi è stato probabilmente espunto perché la norma, alla luce della modifica, opterebbe per il modello lealistico di tutela, in cui l’infedeltà del soggetto agente non si misura soltanto con l’interesse del datore di lavoro, ma con interessi di portata più generale. Il richiamo al generico concetto di “doveri” potrebbe essere letto in senso omnicomprensivo, pur incorrendo nel rischio di eccessiva genericità.
Se, infatti, dalla violazione degli obblighi inerenti l’ufficio viene escluso il richiamo a norme etiche e comportamentali, i doveri potrebbero al contrario ricomprenderli.
L’assenza di un evento di danno, richiederebbe quindi uno sforzo maggiore nella determinazione delle condotte suscettibili di mettere in pericolo la libera concorrenza. La fattispecie di pericolo, posta a presidio di beni di portata generale, potrebbe ingenerare deficit di determinatezza e tassatività della fattispecie impedendo alla norma di assolvere la sua funzione di prevenzione generale e speciale.
Nel Disegno di Legge S-19, la levatura attribuita a questi interessi di matrice pubblicistica è avvalorata dall’intenzione di inserire dopo il libro secondo del Codice penale, un apposito Titolo VIII del Capo IV, intitolato “Dei delitti contro l’ordine economico e finanziario”.
Da un punto di vista sociologico non si può fare a meno di notare le dimensioni allarmanti della corruzione che necessita di un intervento di contrasto più incisivo. Il legislatore del 2002 aveva mostrato timidezza nella rubrica dell’articolo 2635 c.c., facendo riferimento al comportamento infedele; oggi è necessario prendere atto dell’effettiva portata del reato di corruzione tra privati che non s’identifica solo nella mala gestio dei vertici aziendali, ma è un problema sociale del quale occorre farsi carico. La riforma del 2012 potrebbe aver spianato la strada, ma i profili di problematicità non sono stati risolti nel senso sperato dalla comunità internazionale.
La trasformazione in una fattispecie di pericolo, l’individuazione della leale concorrenza e della stabilità dei mercati come beni oggetto di tutela, sono elementi che riconducono ad una trasposizione del modello pubblicistico della corruzione propria che anticipa la soglia della punibilità alla promessa, offerta o dazione di utilità.22
Alcune considerazioni devono essere fatte con riferimento al momento consumativo. Dalla lettera delle recenti proposte, si potrebbe dedurre che la promessa o dazione di utilità siano eventi alternativi. Non si può, tuttavia, tralasciare il dibattito sorto sul punto in occasione dell’entrata in vigore della norma e che ha poi indotto alla modifica dell’originaria “Bozza Mirone” nel 2002.
Parte della dottrina23aveva sostenuto che, qualora alla promessa facesse seguito la dazione, l’approfondimento dell’offesa avrebbe determinato uno spostamento in avanti del momento consumativo. Convergendo con quest’orientamento, la giurisprudenza aveva, a sua volta, ribadito che il reato si sarebbe perfezionato alternativamente con l’accettazione della promessa o con la dazione, ma è solo in quest’ultimo caso che sarebbe venuto a consumazione (nel caso di specie, il momento consumativo era stato riconosciuto nell’effettiva utilizzazione uti dominus della somma).24
Sempre la giurisprudenza di legittimità era poi pervenuta all’individuazione di due ipotesi: nella forma “ordinaria” ai fini del perfezionamento sarebbe stato necessario il ricevimento dell’utilità, mentre nella forma “contratta”, sarebbe stata sufficiente la semplice accettazione.25 C’era altresì chi rinveniva nel ricevimento dell’utilità un postfactum non punibile considerando la promessa e la dazione come eventi alternativi.26
Il dato incontestabile è che la trasformazione del reato di corruzione fra privati in fattispecie di pericolo anticipa la rilevanza penale della condotta; ipotizzare l’incriminazione separata e cumulativa della promessa e della dazione, potrebbe suscitare dubbi di compatibilità con il divieto di bis in idem, posto che la dazione presuppone l’accordo, che ne rimarrà di conseguenza assorbito.27 Individuare la soglia di punibilità nella semplice promessa, significherebbe riproporre le perplessità già mostrate da dottrina e giurisprudenza relativamente alla possibilità di rendere la corruzione fra privati una fattispecie di pericolo. Se l’obiettivo è tutelare la concorrenza, la semplice accettazione potrebbe ritenersi sufficiente ai fini del perfezionamento della condotta illecita.
Gli ultimi orientamenti giurisprudenziali si sono mossi in questa direzione, spostando la consumazione all’effettivo raggiungimento «[…] anche solo di un accordo di massima sulla ricompensa da versare in cambio dell’atto, anche se restino ancora da definire dettagli sulla concreta fattibilità dell’accordo […]».28 Avuto riguardo della dimensione pubblicistica del bene che s’intende tutelare, una simile interpretazione non si porrebbe in contrasto con il principio di meritevolezza della pena, essendo già il pactum sceleris in grado di mettere in pericolo la stabilità dei mercati e ponendo ancora l’accento sull’illeceità della corruzione in sé.
Degna di nota è altresì la modifica di massimi e minimi edittali. Le nuove proposte ridimensionano il minimo che da un anno passa a sei mesi, riproponendo le problematiche sull’identità di trattamento sanzionatorio con riferimento all’altra fattispecie di Infedeltà patrimoniale ai sensi dell’articolo 2634 c.c..
Orbene si rammenta che nelle recenti intenzioni del legislatore la corruzione tra privati presenta una struttura diversa; persegue, infatti, una finalità di tutela non più ancorata al patrimonio e non più subordinata al verificarsi di un evento di danno. Una riflessione che potrebbe sorgere è legata al fatto che la tutela del patrimonio sociale è attualmente punita con una pena il cui minimo è di un anno, mentre nel caso del presidio a beni di portata più ampia, le recenti proposte applicherebbero un minimo edittale di sei mesi. È pur vero però che, il più basso il minimo edittale sarebbe controbilanciato dalla trasformazione in reato di pericolo e dalla relativa anticipazione della soglia di punibilità.
Insieme al secondo comma dell’articolo 2635 c.c., scompare altresì inoltre il diverso trattamento sanzionatorio riservato ai soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza, essendo la loro condotta equiparata a quella dei soggetti apicali. Tale equiparazione sembrerebbe coerente con l’intenzione di punire la corruzione in sé, ancor prima del comportamento infedele, per scongiurare il pericolo di lesione alla concorrenza.
Circa l’individuazione del modello di tutela preso di mira dal legislatore, è bene precisare che laddove la norma fosse modificata nel modo sperato dagli attuali proponenti, si segnerebbe il definitivo passaggio al modello concorrenziale. Se la corruzione privata nell’attuale formulazione in vigore, s’inquadra a metà strada tra il modello posto a tutela del patrimonio e degli assetti aziendali e quello posto a presidio dei doveri di fedeltà del dipendente, le proposte de iure condendo ne costituirebbero il superamento mirando a neutralizzare non solo la slealtà, ma le condotte incidenti sulla correttezza delle dinamiche di mercato. In un’ottica di comparazione, al pari dell’ordinamento tedesco, il bene giuridico tutelato è la concorrenza leale, interpretata peraltro in modo estensivo. Le imprese tedesche sono, infatti, chiamate a rispondere dei reati in esame, anche quando operano nel mercato sovranazionale. La fattispecie punita si costruisce su un reato di pericolo in cui il nucleo forte è rappresentato dall’accordo fraudolento.
L’obiettivo dell’odierno legislatore è intervenire in modo complessivo su fenomeni criminali che presuppongono condotte corruttive. Nella Relazione alla Proposta di Legge C-2165 si legge testualmente: «La corruzione rappresenta un fenomeno in costante ascesa, un vero e proprio “freno a mano” tirato che soffoca la nostra economia e lo sviluppo del nostro Paese. La crisi economica corre il rischio di fare da detonatore a una situazione che tende al collasso. Ogni anno oltre 60 miliardi di euro vengono scippati agli italiani per colpa di un inadeguato sistema di prevenzione e repressione della corruzione. Un dato enorme, un vero e proprio cancro per la nostra economia che si trova penalizzata sia sui potenziali di crescita sia sul grado di competitività del Paese»29. Il fronte contro queste forme di criminalità economica, richiede un impatto massiccio, anche ambizioso se consideriamo le resistenze da parte del mondo dell’imprenditoria e l’instabilità politica che complica e prolunga i processi decisionali.
Ed è infine necessario implementare l’operato dell’istituzione giudiziaria, rendendo il sistema più efficiente, intervenendo sulla prescrizione e alleggerendo i meccanismi investigativi, con il fine ultimo di tendere all’annichilimento dei fenomeni in esame.
1 P. DE ANGELIS, A. JANNONE, D.L. anticorruzione. La corruzione fra privati e la tentazione del “panpenalismo”. Cosa cambia nel modello, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, vol. 4, 2012, pp. 61 ss.
2 P. SEVERINO, La nuova legge anticorruzione, in Dir. pen. e proc., vol. 1, 2013, pp. 7 ss.
3 G. SANDRELLI, Entra in scena la corruzione privata, in A. ZAMBUSI, Infedeltà a seguito della dazione o promessa di utilità (ART. 2635 c.c.): alcuni aspetti problematici, in L’indice penale, vol. 3, 2005, pp. 1035.
4 M. ROMANO, G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, Giuffrè, 1996, pp. 256.
5 C. PEDRAZZI, Società commerciali (disciplina penale), in Dig. disc. pen., vol. 8, 1998, pp. 396.
6 G. BATTAGLINI, La querela, 1998, in G. MATARRAZZA, Convegno Suprema Corte di Cassazione, Roma, 17 aprile 2013.
7 Cass. pen. sez. II, n. 24824/2008 e Cass. pen., sez. V, n. 37033/2006.
8 E. LA ROSA, Infedeltà patrimoniale e procedibilità di parte: anche il singolo socio è persona offesa?, in Giur. comm., vol. 5, 2007, pp. 1038.
9 P. ZANNOTTI, Il nuovo diritto penale dell’economia, Giuffrè, 2006, pp. 293.
10 P. CORVI, Parte civile e nuovi reati societari, cit. n. 111 in, M. BELLACOSA Obblighi di fedeltà dell’amministratore di società e sanzioni penali, Giuffrè, 2006 pp. 274.
11 G. MAZZOTTA, La corruzione fra privati, in Convegno Suprema Corte di Cassazione, Roma, 17 aprile 2013.
12 G. ANDREAZZA, L. PISTORELLI, Relazione Ufficio Massimario Cassazione n. III/2012.
13 S. SEMINARA, Il reato di corruzione fra privati, in Le società, vol. 1, 2013, pp. 61-70.
14 R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, Commentario alla Costituzione: banca dati ipertestuale, UTET, 2008.
15 Corte Cost., n. 14/2004.
16 F. SEBATINO, nota a Cass. civ. n. 827/1999, La libertà di concorrenza secondo la disciplina civilistica e la normativa pubblicistica a tutela della concorrenza e del mercato, in Giust. civ., vol. 6, 1999, pp. 1655.
17 Cass. civ., n. 6887/1996.
18 A. SPENA, Punire la corruzione privata? Un inventario di perplessità politico-criminali, in Riv. trim. dir. pen. ec., vol. 4, ottobre-dicembre 2007, pp. 840.
19 DISEGNO DI LEGGE n. 19, d’iniziativa dei senatori GRASSO e altri, COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 15 MARZO 2013, Disposizioni in materia di corruzione, voto di scambio, falso in bilancio e riciclaggio
20 PROPOSTA DI LEGGE n. 2165, d’iniziativa dei deputati FERRANTI, VERDINI e altri, presentata il 6 marzo 2014, Modifiche al codice civile e al codice penale e altre disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione e nei rapporti tra privati
21 A. SPENA, Corruzione fra privati, Dir. pen. proc., 2013, pp. 43.
22 S. SEMINARA, Il reato di corruzione fra privati, in Le Società, gennaio 2013, pp. 69.
23 A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte spec., Giuffrè, 1994, pp. 193.
24 Cass. Sez. U., n. 15208/2010.
25 Cass. pen., Sez. VI, n. 204435/1996.
26 Sul punto C. GROSSO, voce “Corruzione”, in Digesto Pen., Utet Giuridica, 1988, pp. 165, nonché Cass. pen., Sez. VI, n. 204846/1996.
27 V. MEMOLI, Sul momento consumativo del reato di corruzione, Giur. It., vol. 5, 1998, pp. 1015.
28 Cass. pen., Sez. VI, n. 13048/2013.
29 PROPOSTA DI LEGGE n. 2165, d’iniziativa dei deputati FERRANTI, VERDINI e altri, presentata il 6 marzo 2014, Modifiche al codice civile e al codice penale e altre disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione e nei rapporti tra privati