Corte d’Appello di Potenza, Sezione Civile, sentenza 16 maggio 2017 n. 245

Nell’ipotesi di responsabilità del Ministero della Salute nella causazione del contagio da epatite cronica HCV, correlato ad epatopatia cronica, contratta a seguito di trattamento di trasfusione subito presso una struttura sanitaria pubblica, è da escludere la configurabilità del reato di epidemia colposa (artt. 438 e 452 c.p.), iemotrasfusionen quanto quest’ultima fattispecie, presupponente la volontaria diffusione di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente incontrollabilità dell’eventuale patologia in un dato territorio e su un numero indeterminabile di soggetti, non appare conciliarsi con l’addebito di responsabilità a carico del Ministero, prospettato in termini di omessa sorveglianza sulla distribuzione del sangue e dei suoi derivati: in ogni caso, la posizione del Ministero è quella di un soggetto non a diretto contatto con la fonte del rischio. Rimane, quindi, solo la configurabilità del reato di lesioni, anche gravissime, non potendosi negare, che per le ragioni sopra dette, il comportamento colposamente omissivo da parte degli organi del Ministero preposti alla farmacosorveglianza sia stata una causa, quanto meno concorrente, nella produzione dell’evento dannoso. In tal senso, la prescrizione della pretesa aquiliana è pari a cinque anni decorrente dal giorno in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita.

massima di Gloria Sdanganelli ©

testo integrale

Corte d’Appello di Potenza, Sezione Civile, sentenza 16 maggio 2017 n. 245: Presidente: Nesti; relatore: Iodice

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. *********, unitamente ai suoi genitori, *********e *********, con atto di citazione notificato il 30/4/2002, ebbe a convenire in giudizio, dinanzi al Tribunale di Potenza, il Ministero della Salute, chiedendo di accertare e dichiarare la responsabilità del Ministero della Salute nella causazione del contagio da epatite cronica HCV, correlato ad epatopatia cronica, contratta a seguito di trattamento di trasfusione subito presso l’Ospedale di Matera, e conseguentemente condannare l’Amministrazione convenuta al pagamento della somma di euro 314.978,00, oltre rivalutazione ed interessi, in favore di **********, di € 28.000,00 in favore di ********* e di € 25.500,00 in favore di ***********, oltre accessori, a titolo risarcitorio.

Esponevano, infatti, gli attori che *************, in data 12/7/1982, pochi giorni dopo la nascita, aveva subito una trasfusione di sangue presso il reparto di neonatologia dell’Ospedale di Matera e che, circa dieci anni dopo, nel luglio 1992, a seguito di ricovero presso l’Ospedale di Desio, le era stata diagnosticata una forma di epatite HCV, poi confermata nel settembre del 1992 dalla biopsia epatica. A seguito di tanto, il 3 marzo 1994, aveva presentato all’ASL domanda di indennizzo ai sensi dell’art. 2 della L. n. 210/1992, e, sottoposta a visita sanitaria presso la C.M.O. di Taranto, nel gennaio del 1997 riceveva il seguente giudizio: “Sì, esiste nesso causale tra la trasfusione e l’infermità: epatite cronica persistente da virus C in paziente trasfuso, ascrivibile all’ottava categoria della tabella A allegata al D.P.R. 30 dicembre 1981 n. 834”. Era stata poi, sottoposta a ricovero presso la clinica pediatrica “De Marchi” di Milano, nonché a visite ed esami per il controllo periodico della malattia, fino al day hospital dell’ottobre 2001 presso il Reparto malattie infettive della ASL n. 4 di Matera. Chiedevano l’accertamento della responsabilità del Ministero della Salute alla luce dei doveri incombenti sullo stesso a tutela della salute (con ricostruzione del quadro normativo come da Trib. Roma 4-15/6/2001), ai sensi dell’art. 2043 c.c., ed anche degli artt. 2050 e 2049 c.c.

Si costituiva il Ministero della Salute eccependo la prescrizione del diritto; l’infondatezza della domanda proposta nei suoi confronti per l’imputabilità della condotta illecita all’ospedale responsabile delle trasfusioni (per cui chiedeva la chiamata in causa della Gestione Liquidatoria della USL n. 6 di Matera); il divieto di cumulo dell’indennizzo previsto dalla legge n. 201/1992 con il risarcimento del danno; l’infondatezza della richiesta di risarcimento del danno morale, sia ****** che per i suoi genitori, e del danno esistenziale. Si costituiva anche la Gestione Liquidatoria della USL n. 4 di Matera eccependo preliminarmente la tardività dell’istanza di chiamata in causa, il proprio difetto di legittimazione passiva, la prescrizione dell’azione e contestando nel merito la domanda.

2. Con sentenza n. 827/2004, pubblicata il 25/12/2004, il Tribunale di Potenza rigettava la domanda principale, dichiarando inammissibile per tardività la domanda di chiamata in causa della Azienda Sanitaria USL n. 4 di Matera, e compensava le spese.

Il Tribunale ha affermato che, in applicazione dell’art. 2947 co 1 c.c., il diritto al risarcimento si era prescritto nel gennaio 2002, dovendosi considerare che nel gennaio 1997 la ************aveva avuto piena contezza della genesi della malattia, a seguito della visita presso il CMO di Taranto, e che non poteva applicarsi il più lungo termine prescrizionale di anni dieci previsto per i reati ipotizzati dalla parte deducente, atteso che: “ nel caso in esame, gli atti a disposizione non consentono di ritenere provato che, per il fatto controverso, sia stata promossa l’azione penale, né che sia ipotizzabile, nei confronti del Ministero della salute e per esso in capo ad un suo organo o funzionario precisamente individuato, il reato di cui all’art. 438 c.p.p. (che presuppone la diffusione, la diffusibilità o l’incontrollabilità del diffondersi del male su un numero indeterminato o indeterminabile di persone e non anche in un ambito circoscritto) ovvero quello di cui agli artt. 582, 583, 590 c.p., mancando la prova concreta di condotte colpose sicuramente poste in essere in violazione di conoscenze acquisite ovvero di norme di prudenza e diligenza, circoscritte sulla base delle medesime conoscenze”.

3. Hanno proposto appello avverso detta ordinanza i sigg******, ***********e ************, per i seguenti motivi:

3.1 errata statuizione sull’eccezione di prescrizione

Deducono gli appellanti che, pur avendo il giudice correttamente individuato il dies a quo del termine di prescrizione della domanda nel momento in cui fu comunicato il verbale della commissione medica ospedaliera di Taranto di esistenza di nesso causale tra la trasfusione e l’epatite C (gennaio 1997), aveva errato nel ragionamento sotteso alla non applicabilità del più lungo termine prescrizionale decennale, sotto due profili: a) non poteva ricadere sugli attori la prova dell’individuazione del soggetto responsabile del reato, ed essendo comunque il Ministero tenuto a risponderne quale responsabile civile del reato; b) la prova del reato di epidemia poteva rinvenirsi nel “fatto notorio” dello “scandalo del sangue infetto”, di cui si sono occupati tutti i media nazionali.

3.2. Con un ulteriore motivo, gli appellanti ribadiscono la necessità del riconoscimento di tutti i danni patiti da ********** e dai suoi genitori, sia a titolo di danno biologico, esistenziale, morale nonché di danno patrimoniale.

4. Si è ritualmente costituito il Ministero della Salute chiedendo il rigetto dell’appello; in via gradata, conclude per la responsabilità della USL; in via ulteriormente subordinata, e nel merito, la detrazione di quanto già percepito a titolo di indennizzo dalla somma eventualmente liquidata a titolo risarcitorio.

5. All’udienza del 12/7/2016 la Corte ha assunto la causa in decisione concedendo alle parti i termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e memorie di replica.

MOTIVI DELLA DECISIONE

6. L’appello è infondato e va rigettato.

6.1. In via preliminare si osserva che l’appello è stato proposto soltanto nei confronti del Ministero della Salute per la domanda formulata ai sensi dell’art. 2043 c.c., ovvero 2049-2050 c.c..

Nessuna questione è posta con riferimento alla domanda, dichiarata inammissibile, nei confronti della Azienda Sanitaria locale, parte in primo grado, che, d’altronde, si evidenzia, non è litisconsorte necessario in questa fase di gravame.

sulla prescrizione dell’azione

6.2. Ciò posto, come anticipato in epigrafe, gli appellanti, pur condividendo il ragionamento del primo giudice sulla individuazione del dies a quo del termine di prescrizione dell’azione risarcitoria proposta nei confronti del Ministero della Salute (decorrente dal gennaio 1997, data della ricezione della comunicazione del verbale della commissione medica di Taranto che, decidendo sulla domanda di indennizzo, ammetteva il nesso causale tra la trasfusione e la malattia), censurano la sentenza impugnata nella parte in cui non ha ritenuto applicabile il termine prescrizionale di cui all’art. 2947 co 3 c.c..

In base a tale previsione, se il fatto dedotto in giudizio è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile.

Gli appellanti, dunque, sostengono che avrebbe errato il Tribunale ad applicare il termine quinquennale di prescrizione dovendo, invece, trovare applicazione il più lungo termine decennale nella fattispecie concreta in cui, sia pure incidenter tantum, devono ravvisarsi gli estremi del reato di epidemia di cui agli artt. 438-452 c.p., sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo.

Ed invero, per la dimostrazione del reato, non sarebbe necessaria l’individuazione del soggetto responsabile del reato dovendosi imputare al Ministero della Salute una colpevole omissione di vigilanza in ordine alle modalità di raccolta, preparazione, conservazione e distribuzione del sangue umano e dei suoi derivati per uso trasfusione, “fatto notorio”, stante la diffusa notizia del cosiddetto “scandalo del sangue infetto”.

Il rilievo penalistico del fatto, dunque, comporterebbe, ex art. 2947 co 3 c.c., l’applicabilità al caso di specie del termine prescrizionale decennale e la pretesa azionata non sarebbe, perciò, ancora prescritta.

La tesi non ha fondamento.

6.2. In punto di diritto, con un orientamento che questa Corte condivide e da cui non vi è motivo di discostarsi, la Suprema Corte di Cassazione, sin dal 1998, ha affermato che “La responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti ad infezioni da virus HBV, HIV e HCV contratte da soggetti emotrasfusi è di natura extracontrattuale, né sono ipotizzabili, al riguardo, figure di reato tali da innalzare i termini di prescrizione (epidemia colposa o lesioni colpose plurime); ne consegue che il diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto tali patologie per fatto doloso o colposo di un terzo è soggetto al termine di prescrizione quinquennale che decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, primo comma, cod. civ., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche (a tal fine coincidente non con la comunicazione del responso della Commissione medica ospedaliera di cui all’art. 4 della legge n. 210 del 1992, bensì con la proposizione della relativa domanda amministrativa).” (Cass. SSUU 576/98; 579-580-581-583 e 584/98).

Nella motivazione della sentenza n. 576/2008 cui hanno fatto seguito tutte le altre, le Sezioni Unite, per quanto qui interessa, hanno chiaramente statuito che: “l’astratta possibile responsabilità del Ministero è configurabile solo quale responsabilità extracontrattuale, a norma dell’art. 2043 c.c.. Va poi escluso che nella fattispecie il fatto possa costituire un reato di epidemia colposa o di lesioni colpose plurime. Premesso che il regime della prescrizione penale è cambiato (L. 5 dicembre 2005, n. 251), la prescrizione da considerare, ai fini civilistici di cui all’art. 2947,comma 3, è quella prevista alla data del fatto, mentre il principio di cui all’art. 2 c.p., (legge più favorevole) attiene solo agli aspetti penali.

Per poter usufruire di un termine più congruo di prescrizione sarebbe necessario ritenere ipotizzabili i reati di lesioni colpose plurime o di epidemia colposa, o omicidio colposo, per i quali i termini prescrizionali erano di dieci anni.

Nella fattispecie è anzitutto da escludere il reato di omicidio colposo, non essendo intervenuto alcun decesso.

È da escludere anche il reato di epidemia colposa (artt. 438 e 452 c.p.), in quanto quest’ultima fattispecie, presupponente la volontaria diffusione di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente incontrollabilità dell’eventuale patologia in un dato territorio e su un numero indeterminabile di soggetti, non appare conciliarsi con l’addebito di responsabilità a carico del Ministero, prospettato in termini di omessa sorveglianza sulla distribuzione del sangue e dei suoi derivati: in ogni caso, la posizione del Ministero è quella di un soggetto non a diretto contatto con la fonte del rischio.

A ciò si aggiunga che elementi connotanti il reato di epidemia sono: a) la sua diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti, mentre nel caso dell’HCV e dell’HBV non si è al cospetto di malattie a sviluppo rapido ed autonomo verso un numero indeterminato di soggetti; b) l’assenza di un fattore umano imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto, mentre nella fattispecie è necessaria l’attività di emotrasfusione con sangue infetto; c) il carattere contagioso e diffuso del morbo, la durata cronologicamente limitata del fenomeno (poiché altrimenti si verserebbe in endemia).

Va esclusa anche la configurabilità del reato di lesioni colpose plurime stante l’impossibilità di individuare in capo al Ministero una condotta omissiva unica dalla quale scaturirebbero le lesioni sofferte dai vari danneggiati, tanto più se si tiene conto che le singole attività di omissioni di controllo e vigilanza fanno capo a diversi soggetti (persone fisiche) succedutisi nel tempo con diversi e successivi atti di autorizzazione alla commercializzazione ed al consumo di partite di sangue.

Rimane, quindi, solo la configurabilità del reato di lesioni, anche gravissime, non potendosi negare, che per le ragioni sopra dette, il comportamento colposamente omissivo da parte degli organi del Ministero preposti alla farmacosorveglianza sia stata una causa, quanto meno concorrente, nella produzione dell’evento dannoso. Sennonché anche la prescrizione del reato di lesioni colpose è pari a cinque anni e quindi non comporta alcun effetto degno di rilievo.” (Cass. SSUU n. 576/98)

Anche di recente, poi, la Suprema Corte ha ribadito che: “in materia di contagio da emotrasfusioni, il diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto patologie infettive per fatto doloso o colposo di un terzo è soggetto al termine di prescrizione quinquennale che decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, comma 1, c.c., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione con cui il giudice di merito, in relazione ai danni da epatite contratta da una bimba talassemica, sottoposta praticamente fin dalla nascita ad interventi emotrasfusionali, aveva ritenuto che proprio la frequentazione settimanale degli ambienti ospedalieri, da parte dei genitori della piccola, avrebbe dovuto rendere gli stessi edotti del rischio di un possibile contagio, avendo il giudice di legittimità, per contro, ritenuto che nessun onere fosse ipotizzabile a loro carico di interpellare, sul punto, i sanitari, in assenza di sospetti o dubbi sulla patologia, ricavabili da specifiche diagnosi, ovvero da particolari esami o accertamenti clinici) (Sez. 3, Sentenza n. 8645 del 03/05/2016, Rv. 639712 – 01: cfr. in senso conforme Cass. sent. n. 28464/2013, 6213/2016, 16650/2013 e 576/2008).

6.3. Nel caso di specie, dunque, in applicazione del richiamati principi, posto che gli appellanti hanno avuto conoscenza dell’esistenza del nesso causale tra la malattia e l’insorgenza della epatite C nel gennaio 1997, la proposizione della domanda risarcitoria soltanto con l’atto di citazione notificato in data 30/4/2002, appare all’evidenza tardiva.

Il motivo è conseguentemente infondato ed il suo rigetto assorbe ogni altra questione.

10. La disciplina delle spese di questo grado di giudizio segue la soccombenza, avuto riguardo all’esito complessivo della lite ed alla manifesta infondatezza del gravame proposto quando i richiamati principi della Suprema Corte si erano già consolidati.

********** devono essere condannati in solido al pagamento delle stesse in favore del Ministero della Salute.

La liquidazione dei compensi è effettuata in dispositivo alla stregua degli artt. 1, 2, 4 e 28 del Decr. Min Giustizia 10.3.2014 n. 55 (cfr. Corte Cost., ord. n. 261/2013), tenuto conto del valore della causa e con riferimento allo scaglione di valore indeterminato, complessità bassa.

P.Q.M.

la Corte di Appello, definitivamente pronunciando sull’appello proposto con atto depositato il 22 febbraio 2005 da **************** avverso la sentenza n. 827/2004 emessa dal Tribunale di Potenza, depositata il 15/12/2004, nei confronti del MINISTERO DELLA SALUTE, in persona del Ministro in carica, nel contraddittorio delle parti così provvede:

1) rigetta l’appello;

2) condanna in solido *********** al pagamento delle spese del presente grado di giudizio in favore del Ministero della Salute che liquida in complessivi euro 4.080,00, oltre per spese generali, IVA e CA come per legge;

Potenza, 09/05/2017

Presidente: dott. Ettore Luigi Nesti ; Consigliere estensore: dott.ssa Lucia Iodice

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