Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 8 ottobre 2015, n. 2018. L’associazione in partecipazione simula un affitto d’azienda se il rischio d’impresa è assunto integralmente dall’associato.

Il contratto di associazione in partecipazione occulta un affitto di ramo d’azienda se la completa conduzione dell’azienda sia riservata all’associato, l’unico ad intrattenere rapporti con i terzi, a decidere in totale autonomia le strategie di vendita e ad assumere i dipendenti, sopportando da sola l’intero rischio di impresa. associzione partecipazioneCiò vuoi dire che, sebbene l’attività affidata all’associato possa concretizzarsi in una vera e propria preposizione institoria, nondimeno essa rimane cosa molto diversa dall’addossare al solo associato l’intero rischio di impresa, giacchè gli effetti giuridici del suo esercizio si producono pur sempre nella sfera giuridica (anche) dell’associante medesimo, che per tale ragione sopporta (sebbene non da solo) il rischio di impresa.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 8 luglio – 8 ottobre 2015, n. 20189
Presidente Bandini – Relatore Manna

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 17.3.08 la Corte d’appello di Milano rigettava il gravame di M.V.  contro la sentenza n. 2850/05 del Tribunale della stessa sede che ne aveva respinto l’opposizione a cartella esattoriale notificatale per il pagamento all’INPS di contributi evasi relativi alla gestione commercianti cui la ricorrente era inscrivibile come lavoratrice autonoma, in quanto gestiva in forma autonoma un’agenzia di viaggi della Decio Viaggi S.r.l..
Secondo i giudici di merito il contratto di associazione in partecipazione stipulato fra la Decio Viaggi S.r.l. e M.V. non era qualificabile come tale, ma occultava – in realtà – un affitto di ramo d’azienda.
Per la cassazione della sentenza ricorre M.V. affidandosi a tre motivi.
L’INPS non ha svolto attività difensiva, ma ha depositato procura in calce alla copia notificata del ricorso.

Motivi della decisione

1- Con il primo motivo il ricorso lamenta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 210 c.p.c. e 94 disp. att. c.p.c. per avere l’impugnata sentenza negato al contratto intercorso fra la Decio Viaggi S.r.l. e M.V. la natura giuridica di associazione in partecipazione, il tutto in contrasto con il relativo contenuto e senza svolgere alcuna attività istruttoria per verificare in concreto le modalità di esecuzione del contratto medesimo.
Il motivo è infondato.
I giudici di merito non hanno fatto altro che esercitare un potere squisitamente giurisdizionale, vale a dire quello di fornire la qualificazione giuridica del contratto, non essendo in alcun modo vincolante il mero nomen iuris indicato dalle parti.
A tal fine – contrariamente a quanto sostenuto in ricorso – non erano tenuti a svolgere alcuna attività istruttoria per verificare in concreto le effettive modalità di esecuzione del contratto, cosa che sarebbe stata necessaria ove se ne fosse ipotizzata una discrasia rispetto al contenuto enunciatovi (il che nessuno aveva messo in dubbio), non già quando, alla stregua delle stesse pattuizioni contrattuali, emerga una diversa qualificazione giuridica.
Ed è appena il caso di ricordare che il potere della qualificazione giuridica del contratto esula dall’autonomia negoziale dei privati (giurisprudenza da sempre costante: cfr. Cass. n. 2000/71) e dalla stessa potestà del legislatore (che non può fornire una propria interpretazione in contrasto con l’oggettiva natura di determinati contratti: cfr. Corte cost. n. 115/94).
2- Con il secondo motivo il ricorso deduce vizio di motivazione nella parte in cui la Corte territoriale, assumendo un rovesciamento dello schema contrattuale del contratto di associazione in partecipazione, ha avallato la tesi dell’INPS secondo cui il rapporto fra la ricorrente e la Decio Viaggi S.r.l. sarebbe stato configurabile come affitto di ramo d’azienda.
Il motivo è inammissibile perché, essendo stato formulato in relazione all’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., ex art. 366 bis c.p.c. (applicabile ratione temporis, vista la data di pubblicazione dell’impugnata sentenza), si sarebbe dovuto concludere, per costante giurisprudenza di questa S.C., con un momento di sintesi del fatto controverso e decisivo, per circoscriverne puntualmente i limiti in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ex aliis, Cass. S.U. 1.10.07 n. 20603; Cass. Sez. III 25.2.08 n. 4719; Cass. Sez. III 30.12.09 n. 27680), il che non è avvenuto.
Né tale momento di sintesi può evincersi dal contesto generale dell’atto, che coinvolge l’intera decisione impugnata, o da quel che si legge a pag. 18 del ricorso, ove si considerano come fatti controversi tutti quelli riferiti dall’associata.
Infine, alla ricorrente non gioverebbe neppure il considerare tale motivo come sostanziale denuncia d’un vizio di violazione di norme di diritto, difettando anche in tale evenienza il quesito prescritto dall’art. 366 bis c.p.c..
3- Con il terzo motivo il ricorso si duole di violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2549, 2552, 2553 e 2556 c.c. nella parte in cui la gravata pronuncia ha qualificato il contratto come affitto di ramo autonomo d’azienda anziché come associazione in partecipazione, di cui pure presentava tutti i profili caratterizzanti.
Il motivo va disatteso.
Proprio l’art. 2552 co. 1 c.c., invocato dalla ricorrente, statuisce che la gestione dell’impresa o dell’affare spetta all’associante e non all’associata, che ai sensi dei successivi commi può vantare soltanto diritto di controllo o di rendicontazione.
Nel caso di specie la sentenza impugnata afferma – invece – che il contratto stipulato tra M.V. e la Decio Viaggi S.r.l. prevede che la completa conduzione dell’azienda sia riservata all’associata, l’unica ad intrattenere rapporti con i terzi, a decidere in totale autonomia le strategie di vendita e ad assumere i dipendenti, sopportando da sola l’intero rischio di impresa.
Né alla ricorrente giova che l’art. 2552 c.c. sia norma derogabile potendo l’autonomia dei privati affidare all’associato poteri di gestione interna ed esterna, perché – in realtà – l’associato deve pur sempre ripetere dall’associante tali poteri (cfr. Cass. n. 1191/97).
Ciò vuoi dire che gli effetti giuridici del loro esercizio si producono pur sempre nella sfera giuridica (anche) dell’associante medesimo, che per tale ragione sopporta (sebbene non da solo) il rischio di impresa.
In altre parole, sebbene l’attività affidata all’associato possa concretizzarsi in una vera e propria preposizione istruttoria, nondimeno essa rimane cosa molto diversa dall’addossare al solo associato l’intero rischio di impresa.
Ed è – invece – quel che è accaduto nel caso di specie, atteso che lo stesso ricorso afferma che, ai sensi dell’art. 4 del contratto, all’associato era attribuito, quale compenso, il 100% dell’utile netto conseguito dall’unità locale decurtato dell’importo di L. 30.000.000 nonché del 2% del fatturato dell’unità medesima.
Ciò significa che, in sostanza, l’associante restava esonerato da ogni perdita, ossia dal rischio di impresa, in contrasto con l’art. 2549 c.c..
Per quanto concerne, infine, le obiezioni in punto di fatto mosse dall’appellante, è appena il caso di notare che si risolvono nel sollecitare una nuova lettura degli atti di causa, non consentita in sede di legittimità.
4- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo tenuto conto del rilievo che l’INPS si è limitato a depositare procura in calce alla copia notificata del ricorso e a partecipare alla discussione in pubblica udienza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 1.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

 

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