Limiti al potere di rilevabilità d’ufficio della nullità contrattuale

 Rilevabilità d’ufficio della nullità contrattuale

Paola Ruberto

Sul tema relativo all’individuazione dei limiti posti al potere di rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, di cui all’art. 1421 cc., si è aperto un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale orientato a polarizzare i termini del contrasto in una duplice alternativa : ammettere il rilievo ufficioso della nullità sia solo nel caso di domanda di adempimento ovvero anche nei casi di risoluzione, annullamento, rescissione. Tale dibattito ha trovato un arresto con la sentenza delle Sezioni Unite. n. 14828 del 4 settembre 2012.

La trattazione di simile argomento impone un’indagine preliminare attorno al tema della legittimazione all’azione di nullità ex art. 1421 cc. Come è noto, l’azione di nullità di un contratto è azione di mero accertamento; la sentenza che definisce il giudizio è dichiarativa e produce i suoi effetti ex tunc. Si tratta di un’azione generale in quanto può essere esercitata dalle parti e dai terzi purché siano portatori di interesse ad agire ex art. 100 cpc. La legittimazione assoluta all’azione di nullità è tuttavia mitigata dall’inciso “salvo diverse disposizioni di legge” che introduce la figura della nullità relativa, fatta valere, nei casi previsti soprattutto nella legislazione speciale, solo dai soggetti individuati dal legislatore (tipico esempio è la legge in materia bancaria e creditizia n. 385 /1993, in cui le nullità cui l’art. 127 fa riferimento possono essere fatti valere dal cliente). Il concetto di nullità relativa si coniuga a quello della nullità di protezione accordate in favore del consumatore. Orbene, immediato e naturale corollario della legittimazione assoluta è la rilevabilità d’ufficio della nullità da parte del giudice, ex art. 1421 cc. Ciò tuttavia non toglie che la nullità relativa, pur mantenendo tutti i caratteri della nullità assoluta, perda proprio quello della rilevabilità d’ufficio. Piuttosto, si tratterebbe di una figura intermedia tra nullità assoluta ed annullabilità, con le caratteristiche della prima ma con una legittimazione riservata alla sola parte interessata1. In generale, il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità di un contratto ex art. 1421 c.c. è stato affievolito dalla giurisprudenza maggioritaria che, alla luce del principio della domanda art. 99 e con quello dell’oggetto della stessa art. 112 c.p.c., ha condizionato tale potere all’iniziativa della parte attrice e lo ha limitato al petitum2. In tal senso, il giudice di legittimità osserva che «solo se sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, il giudice è tenuto a rilevare, in qualsiasi stato e grado del giudizio, l’eventuale nullità dell’atto, indipendentemente dall’attività assertiva delle parti»(ex aliis, Cass. 2398/88; 6899/87). In altri termini, la nullità sarebbe rilevabile d’ufficio solo nei giudizi promossi per ottenere l’adempimento e non anche per ottenere l’annullamento, la risoluzione, la rescissione (posizione questa, come si vedrà, del tutto opposta a quella assunta dalla dottrina). La Corte Cass. con sentenza n. 1127/70 aveva inoltre sostenuto con chiarezza che la rilevabilità ex officio della nullità del contratto, sancita dall’art. 1421 c.c., opera,anche in sede di impugnazione, quando si chieda in giudizio l’applicazione del contratto, e aveva aggiunto che quando in giudizio non si chiede l’applicazione del contratto, ma la risoluzione di esso, il giudice non può dichiarare ex officio la nullità, perché il divieto di decidere su domande non proposte si concreta in una preclusione all’esercizio della giurisdizione, la cui violazione “da luogo a vizio di extrapetizione”. Negli anni successivi, accanto a pronunce conformi all’orientamento tradizionale (Cass. 4817/99;1378/99; 4607/95; 4064/95; 1340/94; 141/93), costanti nel ribadire che la nullità del contratto è rilevabile d’ufficio, sempre che risultino acquisiti al processo gli elementi che la evidenziano, solo nella controversia promossa per far valere diritti presupponenti la validità del contratto stesso, non anche nella diversa ipotesi in cui la domanda sia diretta a far dichiarare l’invalidità del contratto o a farne pronunciare la risoluzione per inadempimento, iniziano ad esserci le prime aperture: la sentenza della Cassazione n. 2858/97 (e anche Cass. 6710/94) ha affermato che «la nullità di un contratto del quale sia stato chiesto l’annullamento (ovvero la risoluzione o la rescissione) può essere rilevata d’ufficio dal giudice, in via incidentale, senza incorrere in vizio di ultrapetizione, atteso che in ognuna di tali domande è implicitamente postulata l’assenza di ragioni che determinino la nullità del contratto»; la Cassazione III sez civ. con sentenza del 22.3.2005 n. 6170 ha vistosamente infranto il fronte giurisprudenziale maggioritario, affermando, in accordo con la dottrina quasi unanime, che le domande di risoluzione e di annullamento presuppongono la validità del contratto, dunque “implicano, e fanno valere, un diritto potestativo di impugnativa contrattuale nascente dal contratto in discussione”. Eppure, a pochi mesi di distanza, la sezione Lavoro della Corte (Cass. 19903/05) ha consapevolmente riaffermato l’orientamento precedente, ripetendo che la nullità può essere rilevata d’ufficio «solo se si pone in contrasto con la domanda dell’attore, solo se cioè questi ha chiesto l’adempimento del contratto». Secondo questa giurisprudenza, il rilievo di ufficio della nullità avverso la domanda di esecuzione di un negozio nullo serve ad impedire che vi sia una sentenza di accoglimento, che sarebbe un indice di legittimità di una situazione giuridica che potrebbe poi rivelarsi pregiudizievole per tutti i consociati. Questa ratio sarebbe del tutto assente nel caso di rilievo in relazione ad azioni diverse da quelle per esecuzione. In queste azioni (risoluzione, etc.) l’eventuale rilievo non potrebbe portare ad un giudicato sulla nullità, ma solo ad una pronuncia incidentale.

Sul tema in questione, la dottrina riguardo al rapporto tra azione di risoluzione e nullità del contratto, ha osservato che la domanda di risoluzione comporta l’esistenza di un atto valido, perché mira a eliminarne gli effetti. Domanda di adempimento e domanda di risoluzione implicano quindi allo stesso modo la richiesta di applicazione del contratto, presupponendo che esso sia valido. La funzione dell’art. 1421 c.c., è di impedire che il contratto nullo, sul quale l’ordinamento esprime un giudizio di disvalore, possa spiegare i suoi effetti. Il compito di far valere la nullità è in via di azione affidato a chiunque abbia interesse, ma al giudice, al quale si chiede di giudicare secundum ius, spetta di rilevare se un atto è nullo e quindi di evidenziare in giudizio la mancanza di fondamento di una domanda che presupponga la sussistenza dei requisiti di validità del contratto. L’aver insistentemente negato che l’azione di risoluzione presupponga, dal punto di vista logico, la validità del contratto e che dunque sia possibile la risoluzione del contratto nullo è tesi invisa alla maggioranza della dottrina civilistica.

Come è noto, con ordinanza interlocutoria n. 25151 del 18 novembre 2011 la Sezione I ha ritenuto opportuno investire le Sezioni Unite della questione: «se la nullità del contratto possa essere rilevata d’ufficio non solo allorché sia stata proposta domanda di esatta adempimento, ma anche allorché sia stata domandata la risoluzione, l’annullamento o la rescissione [….] del contratto stesso».

Ebbene, le Sezioni Unite con sentenza n. 14828 del 4 settembre 2012 hanno osservato che la spiegazione dell’atteggiamento giurisprudenziale ostile al rilievo officioso della nullità riposa sulla doppia natura della norma, che è all’incrocio tra diritto sostanziale e diritto processuale.

La ritrosia delle Corti rispetto al rilievo della nullità del contratto nasce da timori di natura processuale, quali la violazione del principio di terzietà e dell’obbligo di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Ciò ha portato a una riduttiva lettura dell’art. 1421 c.c., ipotizzando che solo l’azione di adempimento richieda la verifica dell’esistenza dei requisiti di validità ed efficacia del negozio da cui è sorta l’obbligazione, questione su cui vi è invece da interrogarsi per ogni azione contrattuale. Questa linea difensiva, sostengono le Sezioni Unite, non è più condivisibile in virtù dello svilimento della categoria della nullità nonché per il fatto che l’essenza della nullità risiede nella tutela di interessi generali, di valori fondamentali o che comunque trascendono quelli del singolo. A riguardo, prosegue la Corte, occorre portare l’attenzione su quanto è stato stabilito dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Sez. 4, 4 giugno 2009, causa 0243/08: il giudice deve esaminare d’ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale e, in quanto nulla, non applicarla, tranne nel caso in cui il consumatore vi si opponga. L’uso in questa sentenza del termine “obbligo”, anziché di quello “ facoltà”, in precedenza comune, è stato inteso come acquisita consapevolezza del concetto di dovere dell’ufficio di rilevare la nullità ogniqualvolta il contratto sia elemento costitutivo della domanda. Dunque, non si tratta di facoltà bensì di obbligo, così come il verbo “può” usato nell’art. 1421 c.c., è da intendersi “deve”, laddove la domanda proposta implichi la questione da rilevare e non si ponga quindi un problema di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Alla luce di quanto appena detto, considerato che l’azione di risoluzione per inadempimento è coerente solo con l’esistenza di un contratto valido, va detto che la nullità del contratto è un evento impeditivo che si pone prioritariamente rispetto alla vicenda estintiva della risoluzione. Il giudice chiamato a pronunciarsi sulla risoluzione di un contratto, di cui emerga la nullità dai fatti allegati e provati e comunque ex actis, non può sottrarsi all’obbligo del rilievo e ciò non conduce ad una sostituzione dell’azione proposta con altra. Soltanto fa emergere una eccezione rilevabile d’ufficio, che può condurre a variabili sviluppi processuali, ma con cui viene qualificata una ineliminabile realtà del rapporto controverso, senza squilibrare i rapporti tra le parti, né introdurre una materia del contendere che non faccia già parte dell’oggetto del giudizio. Opera così l’innegabile funzione oppositiva del potere-dovere di cui all’art. 1421 c.c., sicuramente individuata dall’orientamento restrittivo, ma da esso non ben coniugata con la regola di cui all’art. 112 c.p.c., giacché la decisione, in questi limiti, resta sicuramente nell’ambito del petitum. La stessa funzione, si badi, non è con altrettanto nitore ravvisabile nel caso di azione di annullamento ove sono allegati vizi genetici, il che peraltro rafforza il convincimento che si viene esprimendo in tema di azione di risoluzione.

Orbene, quali scenari ha aperto il responso delle Sezioni Unite sui limiti della rilevabilità ufficiosa della nullità contrattuale? Si può senza dubbio osservare che il rapporto tra il potere di rilievo d’ufficio e l’azione di risoluzione(quantomeno per inadempimento) è stato tradotto in termini di compatibilità, vale a dire tale potere può ora essere esercitato nel giudizio promosso per chiedere la risoluzione per inadempimento3. Inoltre, le Sezioni Unite adottano la soluzione favorevole alla rilevabilità d’ufficio della nullità contemperandola con la valorizzazione del principio di collaborazione tra giudice e parti del processo mediante il coordinamento dell’art. 1421 cc con le importanti modifiche degli artt. 101 e 153 c.p.c4. Alla luce di ciò, il giudice deve procurare il contraddittorio delle parti rispetto alle questioni rilevate d’ufficio. Infatti, «in omaggio al principio di collaborazione tra il giudice e le parti, il magistrato deve sempre indicare alle parti le questioni rilevabili di ufficio, tra le quali vi rientra la nullità del contratto. La mancata segnalazione da parte del giudice comporta la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa delle parti. Qualora poi la violazione si sia verificata nel giudizio di primo grado, la sua domanda in appello accompagnata dalla indicazione delle attività processuali che la parte avrebbe potuto porre in essere, cagiona, se fondata, non già la regressione al primo giudice, ma, in forza del disposto dell’art. 354, comma 4, c.p.c., la rimessione in termini per lo svolgimento nel processo di appello delle attività il cui esercizio non è stato possibile». Ciononostante, la sentenza in esame rinvia ad altra occasione la verifica in ordine alla possibilità di operare o meno una equiparazione tra le varie azioni di impugnativa negoziale (risoluzione, annullamento e rescissione) ai fini di un loro eguale trattamento allorquando nell’ambito di ciascuna di esse si ponga a questione sui limiti al potere di rilievo ufficioso della nullità contrattuale5. Probabilmente a frenare le Sezione Unite sulla risoluzione di quest’ultima questione, vale a dire sulla necessità di operare, nell’ambito del potere di rilievo ufficioso, la dovuta distinzione tra le azioni demolitorie del vincolo contrattuale, è stato il timore di un non consentito ampliamento del decisum rispetto a quello che doveva essere fatto oggetto di risposta ai motivi di ricorso esaminati ed Nella pronuncia delle Sezioni Unite, inoltre, si segnalano non poche incongruenze con riferimento alla applicazione del principio espresso dalla Corte al caso concreto: in primo luogo si può osservare che la fattispecie concreta oggetto dei pregressi gradi di merito non sembrerebbe trovare piena corrispondenza con il principio enunciato dal giudice di legittimità. Infatti, nel giudizio di merito non sembra che fosse stata proposta alcuna domanda di risoluzione (per inadempimento o per una delle altre cause previste dal codice civile) del contratto quanto, diversamente, il (mero) diritto della parte in bonis ad ottenere, all’esito di un ordinario giudizio di cognizione e “sul presupposto dell’avvenuto scioglimento del contratto” ai sensi dell’art. 72, comma 4, legge fallim., la restituzione del bene consegnato in esecuzione di quel medesimo preliminare di permuta6.Ulteriore aspetto che attira l’attenzione e che nasconde lati poco comprensibili è il passaggio in cui il giudice di legittimità dà conto della possibilità per l’attore che abbia agito per ottenere la risoluzione del contratto di convertire tale sua domanda in (e/o cumularla con) una vera e propria “azione di nullità”, nonché quello in cui si affronta l’ eventuale remissione in termini dell’appellante per il caso “in cui sia omesso il rilievo officioso della nullità” ed al tema del giudicato implicito sulla “validità” del contratto “tutte le volte in cui la causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito”. Sul primo punto, si ritiene infatti che «se la (dovuta) segnalazione alle parti della rilevabilità della questione attinente alla nullità del contratto dovesse permettere all’attore che ne abbia chiesto la risoluzione di poter, ora aspirare all’accoglimento di una vera e propria azione volta a far positivamente accertare e dichiarare la nullità, allora le cautele che da sempre circondano il potere di cui all’art. 1421 c.c., qualora posto in relazione al principio della domanda ed alla terzietà del giudice, verrebbero fatalmente ad incrinarsi». Per quanto concerne invece il caso in cui sia omesso in primo grado il rilievo officioso della nullità e tale omissione venga fatta valere in sede di appello, occorre fare una puntualizzazione. È evidente, infatti, che se il riferimento alla omissione del rilievo officioso della nullità voleva essere rivolto al diverso profilo della mancata attivazione del contraddittorio ex art. 101, secondo comma, c.c. sulla questione pregiudiziale (di nullità del contratto) poi, invece, effettivamente posta a fondamento della decisione di rigetto della domanda di risoluzione, allora nulla quaestio; qui in effetti dovrà essere concesso all’attore che si è visto rigettare la sua domanda di gravare la sentenza proponendo nel contempo, come avrebbe potuto fare (anche valorizzando il novellato disposto di cui all’art. 153 c.p.c.) in primo grado qualora il giudice avesse fatto corretta applicazione del secondo comma dell’art. 101 c.p.c., domanda di accertamento incidentale negativo della nullità ufficiosamente rilevata ma non debitamente “segnalata”. Al contrario, emerge la non perfetta tenuta del ragionamento qualora ci si sia voluti riferire al caso in cui sia del tutto mancato qualsiasi rilievo della questione7.

1 Cfr. GIUSY COSCO, Sistema delle patologie contrattuali e orientamenti attuali, in Rassegna di diritto civile, fasc. 3-2011, pp. 683 ss.

2 Ibidem.

3 Cfr. MARCO FARINA, Brevi osservazioni “ a caldo” sull’atteso (ma tutto sommato, solo parziale) responso delle Sezioni Unite sui limiti delle rilevabilità ufficiosa della nullità del contratto (Cass.civ., sez. un., 4 settembre 2012, n. 14828, est. D’Ascola),in www.judicium.it

4 Cfr. MARIANNA PULICE, Rilevabilità d’ufficio della nullità contrattuale: le Sezioni Unite pongono fine ai contrasti, in www.diritto24.ilsole24ore.com

5 Cfr. MARCO FARINA, op.cit..

6 Ibidem.

7 Ibidem.

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