Sui poteri di cognizione del giudice del lavoro rispetto al contenuto del ricorso

Sui poteri di cognizione del giudice del lavoro rispetto al contenuto del ricorso

di  Gloria Sdanganelli

Sommario: 1. L’interpretazione del contenuto sostanziale della domanda nel ricorso carente; 2.  Il riconoscimento di documenti come integrativi del ricorso; 3.  L’onere di esattezza e completezza del ricorso; 4. Le carenze del ricorso e la disciplina delle nullità; 5 La funzione del ricorso: lo svolgimento delle difese del ricorrente; 6.  La conseguente nullità della domanda giudiziale; 7. Vizi che non determinano la nullità del ricorso; 8. Conclusioni

1 L’interpretazione del contenuto sostanziale della domanda nel ricorso carente

Alla questione su quali siano i confini della cognizione del giudice nella valutazione dell’atto introduttivo, la Suprema Corte ha più volte dato risposta con posizioni contrastanti. Saranno, di seguito, esposte ed argomentate le principali tesi giurisprudenziali.

L’art. 414 c.p.c. prescrive tra gli elementi costitutivi del ricorso l’indicazione dei documenti[1] che il ricorrente offre in comunicazione, ponendo a suo carico l’onere, non più ripetibile nel corso del giudizio e salve le deroghe sopra evidenziate, di introdurre le prove precostituite a sostegno della propria pretesa.

La questione che viene in luce è, precisamente, se gli atti documentali allegati al ricorso possano supplire alla genericità del contenuto della domanda giudiziale al fine di consentire comunque al giudice l’individuazione del thema decidendum e la pronuncia della sentenza conclusiva del giudizio.

La norma posta alla base della tesi favorevole a questo potere estensivo di valutazione è l’articolo 112 c.p.c.. Si sostiene infatti che la sentenza finale deve essere rispettosa del principio della “Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato”, il quale a sua volta postula che il giudice sia in grado di conoscere ogni elemento posto a fondamento della volontà di tutela giurisdizionale del ricorrente.

Conseguenza è che, nella preliminare fase di interpretazione del ricorso, il giudice non debba arrestarsi ad una indagine meramente formale del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, ma debba avere riguardo al “contenuto sostanziale della pretesa fatta valere [2].

 

Un esempio di tale interpretazione è dato da Cass. civ., sez. lav. 19 maggio 2009 n.11599. Nella fattispecie il ricorrente aveva chiesto nel ricorso il diritto alla rendita corrispondente alla misura di riduzione della capacità lavorativa a causa dell’osteoartrosi contratta a seguito dell’utilizzo di strumenti vibranti. Negli atti allegati al ricorso, tuttavia, egli aveva inserito anche una relazione del medico in cui si menzionava una broncopneumopatia. Il ricorrente chiedeva, dunque, per il solo fatto dell’allegazione di tale documento, che il giudice concedesse un’ indennità anche riguardo a tale patologia.

2 Il riconoscimento di documenti come integrativi del ricorso

Secondo la Suprema Corte: “nell’esercizio del potere di interpretazione della domanda, il giudice di merito non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo egli tenere conto del contenuto sostanziale della pretesa”. Ne consegue che “la domanda giudiziale può esprimersi non solo con il formale atto del ricorso bensì attraverso gli atti allegati al ricorso stesso, del quale siano considerati parte integrante[3] “, perchè è anche attraverso tale supporto che egli può ricostruire la portata del petitum e emettere una decisione che si estenda all’intero suo contenuto.

Di conseguenza, e in ossequio al precetto di cui all’art. 112 c.p.c., la sentenza del giudice di merito risulterà viziata se non siano state enunciate le ragioni per le quali egli abbia ritenuto inidonei a fondare la decisione finale gli elementi probatori indicati nel ricorso introduttivo dalle parti, giustificando, pertanto il “ricorso in sede di legittimità e la cassazione della sentenza, e . . . nuova adeguata valutazione in sede di rinvio [4]”.

Se il riconoscimento degli atti documentali come integrativi del ricorso assume rilievo in Cass. 115999/2009, ben più ardita è la conclusione cui giunge la Suprema Corte in Cass. sez. lav., 16 febbraio 2010 n. 3605; nel caso di specie il ricorrente, datore di lavoro, lamentava il fatto che il giudice d’Appello avesse confermato l’inquadramento del resistente nel livello superiore reclamato, nonostante l’evidente difetto di allegazione in ordine alla mansioni effettivamente svolte, basandosi unicamente sulle dichiarazioni rese dal teste escusso nel giudizio di primo grado, e consentendo, così, la sanatoria di un vizio del ricorso tramite una prova costituitasi all’interno del processo stesso.

Trattasi certo di due pronunce che si espongono a forti critiche, può rilevarsi infatti che le conclusioni cui giunge la Corte nella prima sentenza menzionata (Cass. civ., sez. lav. 19 maggio 2009 n. 11599) appaiono fuorvianti e tali sono le premesse da cui le prime discendono. Infatti, nel caso di specie, la Cassazione rinviava ad una precedente pronuncia in cui la medesima aveva evidenziato che la funzione del proprio sindacato è quella dell’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, che può perciò essere ricostruita in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio[5], e dunque ex art. 1366 c.c. e successivi;

Invero, è ben noto che i criteri di interpretazione del contratto, tanto in senso soggettivo (volti a ricercare la comune volontà delle parti), tanto in senso oggettivo (finalizzati alla conservazione del negozio) si applicano ad una tipologia di rapporto, quello contrattuale, in cui elemento fondamentale è l’accordo tra due volontà di segno uguale; ben diversa è l’ipotesi del rapporto processuale che si instaura tra attore-ricorrente e convenuto-resistente, in cui le parti perseguono finalità (rispettivamente l’accoglimento e il rigetto del ricorso) che sono diverse e inconciliabili tra loro;

Nella seconda pronuncia menzionata (Cass. sez. lav., 16 febbraio 2010 n. 3605) appare invece ardita l’operazione ermeneutica condotta dal giudice d’appello – ritenuta fondata dalla Suprema Corte – di ricostruzione del contenuto della causa petendi tramite le dichiarazioni testimoniali rese nel corso del giudizio. Una simile impostazione appare non rispettosa dell’art. 414 c.p.c., che assegna ai vari elementi costitutivi del ricorso un ruolo e delle finalità diverse: il petitum e la causa petendi sono infatti funzionali all’identificazione del thema probandum, mentre alle prove precostituite allegate e quelle costituende di cui si richiede l’ammissione “deve assegnarsi solo la funzione probatoria di attestare la veridicità degli assunti riportati nell’atto introduttivo della lite e di mostrarne la fondatezza” [6];

In altri termini non può ritenersi ammessa, specialmente nell’iter di un processo rapido e concentrato come quello del lavoro, l’integrazione successiva della domanda rispetto ad elementi essenziali come l’oggetto e il titolo quando essi siano totalmente carenti [7].

3 L’onere di esattezza e completezza del ricorso

Come già anticipato, sul tema della cognizione del giudice la giurisprudenza è tutt’altro che concorde. Si riportano di seguito dei casi in un la Corte perviene a risultati del tutto opposti a quelli precedentemente esposti.

In Cass. sez. lav., n. 24346/2013 si osserva preliminarmente che il precetto di cui all’art. 414 c.p.c. attribuisce al ricorrente un onere di esattezza e completezza circa l’indicazione dell’oggetto della domanda (n. 3), nonché degli elementi di diritto su cui essa si fonda con le relative conclusioni (n.4).

Infatti “le esatte e complete indicazioni nell’atto introduttivo del giudizio servono al giudice, per conoscere pienamente il thema decidendum sin dall’inizio della causa al fine di procedere incisivamente al tentativo di conciliazione e, se negativo, agli incombenti istruttori e alla decisione immediata in tempi ragionevoli, e nondimeno sono indispensabili per il pieno spiegamento del contraddittorio.

Tali premesse portano la Corte ad affermare che: il difetto di completezza che impedisce l’identificazione dell’oggetto della domanda non può essere colmato dal Giudice ricorrendo all’esame complessivo degli atti allegati dalla parte al ricorso con un’estensione del delineato potere di interpretazione complessiva della domanda agli atti depositati dalla parte dai quali evincere il contenuto della pretesa, l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia[8].

 Alla medesima conclusione era già pervenuta la Corte in Cass. sez. lav., 28 maggio 2008 n. 13989 in una pronuncia relativa ad un caso di richiesta di spettanze retributive da parte del lavoratore. Nella specie, il ricorso proposto non consentiva – anche tenendo conto del conteggio ad esso allegato e della contrattazione collettiva – di comprendere quali fossero le specifiche doglianze che venivano mosse nei confronti dei convenuti dal ricorrente.

La Corte di Cassazione aveva pertanto rigettato il ricorso innanzi ad essa proposto motivando circa l’impossibilità di supplire alle carenze del ricorso, con riguardo al petitum e causa petendi , tramite l’allegazione degli atti documentali, la cui funzione è unicamente quella di attestare la veridicità degli assunti riportati nell’atto introduttivo del giudizio e mostrarne la fondatezza[9].

L’argomentazione della Corte muove infatti dalla constatazione che “nel rito del lavoro si riscontra una circolarità tra oneri di allegazione, di contestazione e di prova , che richiede la necessità che ai sensi degli artt. 414 e 416 c.p.c., gli elementi di fatto e di diritto posti a base delle diverse domande e/o istanze dell’attore e del convenuto siano compiutamente contenuti nei rispettivi primi atti processuali (ricorso e memoria difensiva) e richiede altresì che risulti individuato in modo chiaro nel ricorso introduttivo quanto richiesto al giudice (petitum), con conseguente impossibilità di dimostrare circostanze non ritualmente e tempestivamente allegate nel ricorso”. In particolare la Corte rilevava che l’onere di allegazione di cui all’art. 414, nel contesto di un processo quale quello del lavoro, incentrato sui princìpi di oralità, concentrazione, ed immediatezza, consente al convenuto di prendere posizione sui fatti di causa, di assolvere agli oneri di contestazione nonchè a quelli probatori aventi ad oggetto i fatti ritualmente e tempestivamente allegati in ricorso.. Tutto ciò in un ottica più generale che guarda al perseguimento del principio della “Ragionevole durata del processo” (art. 111 Cost., comma 2).

Queste ultime pronunce (Cass. sez. lav., n. 24346/2013; Cass. sez. lav., 28 maggio 2008 n. 13989) appaiono maggiormente rispettose dell’intentio legis dell’art. 414 c.p.c.; in entrambe è infatti ribadito che:

La completa ed esatta formulazione in ricorso è essenziale e strumentale alla definizione del thema decidendum, allo svolgimento delle difese del resistente e alla pronuncia della sentenza conclusiva del giudizio in tempi brevi;

L’assolvimento dell’onere di cui è investito l’attore ex art. 414 c.p.c. nn. 4 e 5 non può perciò ritenersi assolto tramite il mero deposito di documenti. In altri termini le allegazioni probatorie non possono di per sé supplire alla carenza della causa petendi e del petitum.

4.Le carenze del ricorso e la disciplina delle nullità

Ulteriore questione, rispetto alla quale la giurisprudenza della Suprema Corte appare tutt’altro che uniforme e che sarà ora argomento di trattazione, è quali siano le carenze del ricorso che ne possono determinare la nullità, e in quale misura un ricorso possa definirsi carente e veder così pregiudicata la sua efficacia.

Mentre costituisce un fatto pacifico che la mancata indicazione dei mezzi di prova (art. 414 n.5 c.p.c.) implica solo una decadenza a carico del ricorrente, con conseguente insufficienza probatoria delle asserzioni attoree che porterà al rigetto della domanda (onus probandi incumbit ei qui dicit), l’ipotesi di omessa o assoluta incertezza degli elementi di cui ai nn. 4 e 5 del comma 1 dell’art. 414 c.p.c., vale a dire della determinazione dell’oggetto della domanda (petitum) e dell’esposizione dei fatti (causa petendi )[10], solleva numerosi profili di incertezza.

5 La funzione del ricorso: lo svolgimento delle difese del ricorrente (ex art. 416 c.p.c.)

Giova osservare preliminarmente che la giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. sez. lav., 29 ottobre 2013 n. 24346, Cass. sez. lav., 28 maggio 2008 n. 13989), in ogni caso, è concorde nello stabilire che funzione del ricorso giurisdizionale e della prescrizione di forma-contenuto di cui all’art. 414 c.p.c., oltre ad essere quello di consentire al giudice di conoscere il thema decidendum sin dall’inizio della causa è senz’altro quella di realizzare il contraddittorio processuale[11] e consentire le difese del ricorrente ex art. 416 c.p.c..

6. La conseguente nullità della domanda giudiziale

 L’onere del ricorrente di indicare specificamente il petitum e la causa petendi a sostegno della domanda giudiziale non può, pertanto, ritenersi adempiuto quando la genericità del contenuto del ricorso impedisca l’instaurazione del contraddittorio tra le parti e, nei termini dell’art. 416 c.p.c., dello svolgimento delle difese del resistente, in ragione della sua inidoneità a conseguire il raggiungimento dello scopo degli atti processuali di cui all’art. 156 c.p.c. comma 3 (“Può tuttavia essere pronunciata (la nullità) quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo”).

Il principio è tratto da Cass. civ., sez. lav., 05-10-2002, n. 14292; in questa pronuncia la Suprema Corte rilevava che, nelle controversie in materia di spettanze retributive, l’attore incorre proprio in questo tipo di carenza qualora il suo ricorso si riduca ad una generica elencazione di spettanze previste dal CCNL, senza indicazione delle circostanze fattuali che possano far assumere loro una determinata consistenza quantitativa in relazione alle quali il convenuto possa esercitare le sue difese nei tempi e con le modalità previste dall’art. 416 c.p.c. [12].

7. Vizi che non determinano la nullità del ricorso

Coerentemente , in Cass. sez. lav., 20-03-2004, n. 5649, la Corte si è pronunciata circa l’irrilevanza, ai fini della nullità del ricorso, dell’assenza di un’originaria quantificazione monetaria in merito alla richiesta di pagamento di spettanze retributive, qualora l’attore indichi i relativi titoli, ponendo, pertanto, il convenuto in condizione di formulare immediatamente ed esaurientemente le proprie difese[13].

Tale principio è ribadito in Cass. sez. lav., 25753/2008, che espressamente riporta un estratto della sentenza soprammenzionata (Cass. sez. lav., 20-03-2004, n. 5649). Nel caso di specie la Suprema Corte, nel rigettare il ricorso e dunque la deduzione secondo cui il dipendente non avrebbe adeguatamente argomentato la insufficienza e non proporzionalità della propria retribuzione, ha stimato corretta la decisione del giudice di merito il quale aveva ritenuto essere stato pienamente assolto da parte del lavoratore l’onere di completezza del ricorso attraverso “l’indicazione della retribuzione percepita in relazione alle mansioni svolte, della insufficienza e non proporzionalità della stessa, in particolare alla luce dei valori correnti riferibili a mansioni analoghe e nell’eventuale indicazione di uno o più parametri di riferimento per la individuazione da parte del giudice della giusta retribuzione, al fine della individuazione delle differenze spettanti [14].

Analogamente si pronunciava la Suprema Corte in Cass. sez. lav., 2006-05-2000, n. 6932, relativa ad un caso di domanda del lavoratore diretta ad ottenere il riconoscimento di una qualifica superiore a quella rivestita, ed al pagamento delle differenze retributive: non sussisterà infatti violazione del principio del contraddittorio né indeterminatezza della causa petendi qualora il ricorrente si sia limitato alla mera specificazione delle mansioni svolte e della normativa collettiva applicabile, ed abbia omesso di indicare parametri retributivi ed i compensi effettivamente percepiti. Questo tipo di carenza, infatti, non comportando di per sé l’impossibilità del l’individuazione del thema decidenum da parte del giudice e non ostando allo svolgimento delle difese del resistente, potrà infatti essere colmata anche successivamente attraverso una consulenza tecnica[15].

  1. Conclusioni

Si può affermare, in conclusione, che la giurisprudenza della Corte di Cassazione tende ad assoggettare la domanda giudiziale a nullità solo in via residuale, mentre la ritiene valida e pienamente efficace qualora, pur presentando carente quanto all’indicazione del petitum o della causa petendi, contenga tuttavia gli elementi necessari al raggiungimento dello scopo che gli attribuisce l’ordinamento giuridico, vale a dire quello di consentire al giudice di conoscere il thema decidendum, l’instaurazione del contraddittorio processuale e l’attuazione delle garanzie difensive del resistente (Cass. sez. lav., 29 ottobre 2013 n. 24346; Cass. sez. lav., 28 maggio 2008 n. 13989; Cass. sez. lav., 20-03-2004, n. 5649; Cass. sez. lav., 25753/2008).

Gloria Sdanganelli

[1] L’atto documentale – da doceo: insegnare, far conoscere- ha sempre, infatti, un contenuto rappresentativo che pertanto ne conferisce l’idoneità ad essere fonte di prova. Grasselli, L’istruttoria probatoria nel processo civile, CEDAM, 1997, pp. 101-102

[2] Cass. civ., sez. lav., 17-09-2007, n. 19331, che ribadisce il principio più volte enunciato, per cui il Giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, ma deve avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante” ; vedi anche Cass. ci., sez. lav. 28 aprile 2014, n. 14166, che sul punto chiarisce: “Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema d’interpretazione della domanda, il giudice di merito è tenuto a valutare il contenuto sostanziale della pretesa, alla luce dei fatti dedotti in giudizio e a prescindere dalle formule adottate, con la conseguenza che è necessario, a questo fine, tener conto anche delle domande che risultino implicitamente proposte o necessariamente presupposte, in modo da ricostruire il contenuto e l’ampiezza della pretesa secondo criteri logici, che permettano di rilevare l’effettiva volontà della parte in relazione alle finalità concretamente perseguite dalla stessa”

[3] 4Cass. civ., sez. lav. 19 maggio 2009 n. 11599. Nel rito del lavoro, allorché il ricorrente abbia fatto riferimento agli atti allegati al ricorso introduttivo, qualificati come parte integrante dello stesso, l’accertamento del giudice di merito deve estendersi, con eguale profondità, al contenuto degli allegati richiamati, che, in ispecie se di natura tecnica, costituiscono lo strumento necessario a manifestare compiutamente la volontà posta a base della domanda giudiziale; ne consegue che il giudice di merito deve motivare le conclusioni delle sue indagini, indicando le ragioni per cui elementi, quali quelli anzidetti, pur astrattamente idonei, non siano stati ritenuti concretamente sufficienti a condurre ad una diversa determinazione, dovendosi ritenere, in mancanza, che la decisione non si sottragga al sindacato di legittimità.

[4] Ibidem

[5] Cass. 8 agosto 2006 n. 17.497, citata da Cass. civ., sez. lav. 19 maggio 2009 n. 11599: Il ricorso è fondato. Su un piano generale è da premettere che “l’interpretazione operata dal giudice d’appello riguardo al contenuto ed all’ampiezza della domanda giudiziale è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione, e, a tale riguardo, il sindacato della Corte di cassazione comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutica assimilabili a quelli propri del negozio”

[6] vedi nota 10

[7] TARZIA, Manuale del processo del lavoro, 2008, GIUFFRÈ EDITORE, V edizione, pag. 110.

[8] Cass. sez. lav., 29 ottobre 2013 n. 24346. Nel rito del lavoro, il potere del giudice di interpretare la domanda, funzionale all’identificazione dell’oggetto della stessa in caso di incompletezza degli elementi indicati dall’art. 414 cod. proc. civ., non si estende agli atti allegati dalla parte al ricorso e, in questo, solo genericamente richiamati.

[9] Cass. sez. lav., 28 maggio 2008 n. 13989. Nel rito del lavoro è affetto da nullità assoluta il ricorso introduttivo allorquando sia privo dell’esatta determinazione dell’oggetto della domanda o dell’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto posti a base della domanda stessa. Tale nullità, che il giudice è tenuto a dichiarare preliminarmente, non è sanabile attraverso un’opera di integrazione del contenuto del ricorso con quello dei documenti allegati al ricorso stesso, dovendo il “thema decidendum” della controversia essere individuato, in ragione della prescrizione di cui ai n. 3 e 4 dell’art. 414 c.p.c. e della circolarità degli oneri di allegazione, di contestazione e di prova, in forma esauriente e chiara sulla base del solo atto introduttivo della lite, non potendo i documenti a esso allegati servire per supplirne le carenze, stante la loro natura di mezzi di prova, volti come tali ad asseverare la veridicità e validità degli elementi di fatto e di diritto allegati in ricorso.

[10] L’incerta o mancata individuazione dei degli elementi di diritto non rileva in questa sede soccorrendo, come è noto, il principio jura novità curia.

[11] Vedi nota 9

[12] Cass. civ., sez. lav., 05-10-2002, n. 14292. Nel rito del lavoro, l’onere di determinazione dell’oggetto della domanda, ai sensi dell’art. 414 n. 3 c.p.c., deve ritenersi osservato, nelle controversie aventi ad oggetto la domanda di pagamento di emolumenti e in genere di spettanze retributive, qualora siano specificamente indicati i relativi titoli in modo da consentire al convenuto la immediata ed esauriente difesa, mentre resta a tal ne irrilevante la mancanza di una originaria quantificazione monetaria delle pretese; l’atto introduttivo non è invece idoneo a dar luogo ad un valido rapporto processuale allorquando si riduca ad una mera elencazione di spettanze previste dal c.c.n.l. senza indicazione dei fatti costitutivi e l’esposizione delle circostanze fattuali atte a far assumere loro una determinata consistenza quantitativa.

[13] Cass., sez. lav., 20-03-2004, n. 5649: “Nel rito del lavoro l’onere della determinazione dell’oggetto della domanda, fissato a pena di nullità dell’atto introduttivo dall’art. 414, n. 3, c.p.c., deve ritenersi osservato, con riguardo alla richiesta di pagamento di spettanze retributive, qualora l’attore indichi i relativi titoli, ponendo così il convenuto in condizione di formulare immediatamente ed esaurientemente le proprie difese, mentre resta a tal ne irrilevante la mancanza di un’originaria quantificazione monetaria delle suddette pretese, anche in considerazione della facoltà dell’attore medesimo di modicarne l’ammontare in corso di causa, nonché dei poteri spettanti al giudice, pure in ordine all’individuazione dei criteri in base ai quali effettuare la liquidazione dei crediti fatti valere”

[14] Cass., sez. lav., 24-10-2008, n. 25753: In particolare, quando si tratti come nel caso di specie della richiesta di determinazione della giusta retribuzione, l’onere di deduzione del lavoratore è stato correttamente ritenuto assolto con l’indicazione della retribuzione percepita in relazione alle mansioni svolte, della insufficienza e non proporzionalità della stessa, in particolare alla luce dei valori correnti riferibili a mansioni analoghe e nell’eventuale indicazione di uno o più parametri di riferimento per la individuazione da parte del giudice della giusta retribuzione, al ne della individuazione delle differenze spettanti.

[15] Cass. sez. lav., 2006-05-2000, n. 6932. La specificazione delle mansioni svolte e della normativa collettiva applicabile costituiscono sufficiente adempimento degli oneri imposti dall’art. 414 n. 3 e 4 c.p.c. in caso di pagamento delle conseguenti differenze retributive, senza che sia necessaria l’indicazione di parametri retributivi e dei compensi effettivamente percepiti oppure la quantificazione dei crediti dedotti, raggiungibile anche attraverso una consulenza tecnica.

Sul punto vedi anche Cass. sez. lav. 13-11-2001, n. 14088: “La Corte ha più volte chiarito che in una controversia, come la presente, avente ad oggetto la rivendicazione dell’inquadramento in una qualifica contrattuale superiore a quella rivestita in relazione alle mansioni di fatto svolte, e il pagamento delle conseguenti differenze retributive, la specificazione (nel ricorso) delle mansioni in concreto esercitate dal lavoratore e della normativa collettiva in virtù della quale è richiesta la diversa qualifica costituisce adempimento necessario e sufficiente degli oneri imposti dall’art. 414 nn. 3 e 4 c.p.c.”

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