Il titolo abilitativo edilizio che consenta di costruire sul confine, inerendo al rapporto tra pubblica amministrazione e proprietario senza incidere sui rapporti tra quest’ultimo e i vicini, i cui diritti non possono mai essere pregiudicati, non può essere inteso come atto di interpretazione autentica del regolamento edilizio. Esso non può precludere al giudice di pervenire alla conclusione che il regolamento edilizio locale, vietando inderogabilmente ai proprietari confinanti di costruire fino a una determinata distanza dal confine, impedisca l’applicazione della disciplina della prevenzione contenuta nel codice civile.
In caso di violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni, il risarcimento del danno determinatosi prima della riduzione in pristino, quale effetto dell’abusiva imposizione di una servitù sul proprio fondo e quindi della limitazione del relativo godimento, impone all’attore l’onere di allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione di utilizzare l’immobile nel periodo della illegittima ingerenza del peso costituito dalla costruzione. La domanda del danno da illecita servitù nel proprio fondo onera l’attore di indicare gli elementi, le modalità e le circostanze della situazione soggettiva dedotta, da cui, in presenza dei requisiti richiesti dagli artt. 2727 e 2729 c.c., possa desumersi l’esistenza e l’entità del concreto pregiudizio patrimoniale subito. Ciò consente poi al giudice di far uso delle presunzioni semplici, divenendo allora comunque in re ipsa (non il danno, ma) la prova del pregiudizio.
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